2006/05/17

ESCRIBE ANTONIO LETTIERI

Concertazione e sindacati al tempo dell' euro

Tre presupposti per la concertazione

Il rilancio dell’idea di concertazione ha nella situazione italiana un evidente valore politico. L’idea riflette la presa di coscienza della crisi in cui versa il paese e il tramonto di molte speranze che il mondo imprenditoriale aveva riposto nel governo di centro-destra. Che poi l’idea possa tradursi in un modello concreto di nuove relazioni industriali, di rilancio economico e di un cambio delle politiche sociali è cosa molto più complessa e di difficile previsione. Ma il fatto politico rimane in tutta la sua importanza, e bene hanno fatto i sindacati e le forze politiche di opposizione a valutarne e apprezzarne la novità.

Ma quali sono le condizioni di una possibile concertazioni nell’attuale quadro dell’economia europea e, più in generale, nell’era dell’interdipendenza globale? Uno sguardo ad alcune esperienze della seconda metà del secolo scorso può aiutarci a capire ciò che non è più uguale, e in quale contesto e con quali difficoltà si può tornare a intraprendere la strada della concertazione.

Sebbene i modelli di concertazione siano molto diversi da un paese all’altro, alcuni presupposti sono comuni. Il primo è una certa concezione della politica che potremmo definire “mite”. Vale a dire, la politica come terreno di mediazione fra esigenze, interessi, aspirazioni contrastanti. Una concezione che fa del consenso delle parti in causa un fattore essenziale del processo politico, non un intralcio alla governabilità. Questa concezione deve avere radici salde e diffuse, dando luogo a comportamenti che non mutano col mutare del vento politico e delle maggioranze elettorali.

Il secondo presupposto è che le parti sociali chiamate alla concertazione e, pertanto, a partecipare attivamente al processo decisionale siano dotati di un’ampia e riconosciuta rappresentatività e affidabilità. Poiché la concertazione non esclude contrasti di interessi e tensioni conflittuali, tra gli attori deve esservi un equilibrio nel dispiegamento delle forze in campo. Sotto questo aspetto, la posizione più delicata è quella dei sindacati a cui non appartiene né la forza istituzionale che qualifica i governi democratici, né il potere economico diffuso che in un’economia di mercato appartiene naturalmente al sistema delle imprese. La caratteristica della rappresentatività più larga possibile, consolidata e riconosciuta, è un fattore essenziale dell’autorevolezza e credibilità del sindacato.

Il terzo presupposto è d’ordine sostanziale, e coinvolge una certa visione del rapporto fra economia e società. Le politiche del lavoro e sociali debbono essere concepite e praticate come elementi intrinseci di una generale politica di crescita economica e di giustizia sociale. Sotto questo profilo, la concertazione investe il terreno delle politiche economiche e quindi le responsabilità, le strategie, i comportamenti dei poteri pubblici. Come vedremo più avanti, la posizione del governo può esprimersi in forme diverse: talvolta con una partecipazione esplicita in un rapporto triangolare; altre volte in una forma più distaccata. Ma in tutti casi i governi debbono mettere a disposizione gli strumenti di manovra economica di cui dispongono per sostenere il quadro di riferimento e gli obiettivi della concertazione.

Questi presupposti nella realtà si dispiegano in un misura diversa. Non esiste un modello idealtipico. Molto dipende dalle tradizioni e dalle circostanze che accompagnano le esperienze di concertazione. Ma, indubbiamente, incontriamo esperienze di concertazione intesa in senso largo che, al di là della specifica forma istituzionale o della sua mancanza, meritano di essere ricordate. Alludiamo all’esempio classico scandinavo; a quello tedesco che definiremo una forma di concertazione “implicita”; infine, all’esempio americano, generalmente escluso dal racconto delle esperienze di concertazione, eppure rilevante per i suoi espliciti presupposti teorici.


Il modello scandinavo

Il primo riferimento d’obbligo è ai paesi scandinavi. Qui tutti i diversi elementi sembrano essersi dispiegati in un processo di piena convergenza. La concertazione si fonda in questo caso su un patto sociale esplicito che scambia la pace sociale, garantita da organizzazioni sindacali centralizzate e dotate di una rappresentanza pressoché totalitaria, con una politica diretta alla piena occupazione e a un esteso stato sociale, sul presupposto di una politica di crescita economica sostenuta e duratura.

Tutto sembra convergere in una visione armonica che esalta il pluralismo delle istituzioni politiche e sociali. Un meccanismo sincronico fin troppo perfetto, ma scarsamente riproducibile. Si tratta, infatti, di esperienze legate a un classico schema politico socialdemocratico, che prevede una chiara e riconosciuta divisone del lavoro fra partito e sindacato, nel quadro di una fondamentale vocazione alla cooperazione sociale. Un modello che, tuttavia, non sfuggendo al logoramento dell’epoca post-fordista della globalizzazione - spinte inflazionistiche, squilibri della finanza pubblica, disoccupazione industriale – ha sottoposto a tensioni esplosive anche lo schema socialdemocratico e neocorporativo. Ma i risultati di quest’esperienza non sono andati dispersi, se si considera che Svezia e Danimarca – due paesi dell’Unione europea, ma fuori dell’euro (che, come vedremo, è una parte dei problemi delle politiche di concertazione) – hanno uno dei più alti tassi di occupazione maschile e femminile e, al tempo stesso, il più alto grado di sicurezza sociale al mondo.


Il Patto implicito: l’esperienza tedesca

Molto diverso è il caso della Germania. Qui esiste (o è esistita) nel dopo-guerra una concezione politica aperta alla collaborazione sociale. A livello delle grandi imprese, essa ha trovato una formalizzazione nella mitbestimmung, la codeterminazione fra management e rappresentanza dei lavoratori. Ma, non ostante l’esistenza dei presupposti che abbiamo prima menzionato, lo schema della concertazione trilaterale ha incontrato un ostacolo insuperabile nel principio quasi costituzionale dell’autonomia della contrattazione rispetto ai poteri pubblici. E, tuttavia, pur in assenza di una forma istituzionalizzata di tipo triangolare, le diverse parti si muovono lungo linee convergenti.

Il punto probabilmente più pregnante era rappresentato dal rapporto implicito fra sindacato e Bundesbank, la potente banca centrale. Da un lato, i sindacati promuovevano, sia pure nell’ambito di un’autonomia sacralizzata, una politica salariale rispettosa del principio di stabilità della moneta - un assioma non solo per i banchieri centrali ma per tutta la società tedesca, dopo la polverizzazione del marco nei primi anni venti del secolo scorso. Dall’altro, la Bundesbank “riconosceva” il diritto dei sindacati all’aumento dei salari reali come normale ripartizione della crescita della ricchezza nazionale. Non ci furono e non ci sono parametri formali, ma limiti impliciti e riconosciuti reciprocamente, al punto che non è mai stato difficile avanzare una previsione sufficientemente affidabile sul punto di caduta della mediazione negoziale dei contratti pilota - generalmente quello metalmeccanico - al seguito di vertenze basate più sulla minaccia del conflitto che non sulla sua manifestazione.

Questo “rapporto di fiducia” che presiedeva allo scambio fra sindacato, associazioni imprenditoriali e Banca centrale non esauriva il quadro di riferimento di un patto sociale implicito che, travalicando i confini del salario, investiva i temi della sicurezza sociale: campo riservato alla responsabilità del governo. Insomma, ciascuna istituzione faceva la sua parte in un quadro di una sostanziale e consapevole convergenza degli obiettivi. Questo non escludeva il conflitto sulla qualità e le dimensioni delle scelte. Ma l’orientamento generale non era alterato dal cambiamento delle leadership di governo. In altri termini, l’alternanza fra sinistra e destra al governo non era priva di significati programmatici, ma non attentava all’essenza del modello di relazioni industriali. E’ interessante osservare che, a differenza dell’esperienza scandinava, il modello tedesco non può essere attribuito a una politica specifica della socialdemocrazia. Che è divenuta protagonista nella scena politica tedesca solo dopo un lungo periodo di egemonia democristiana, peraltro confermata dal lunghissimo regno di Helmut Kohl fra gli anni 80 e 90.

L’esempio tedesco mostra l’importanza di una certa filosofia politica rispettosa del pluralismo come dimensione della democrazia in una non casuale opposizione ai principi di autoritarismo presenti nella storia tedesca, e poi degenerati nella fuhrership nazista. E dimostra anche l’efficacia di un metodo che ha fatto della Germania la maggiore potenza industriale del continente. Ma anche qui non sono mancate difficoltà crescenti destinate a minare profondamente il rapporto di concertazione, quando la politica economica del governo, come vedremo più avanti, si è trovata intrappolata nelle conseguenze impreviste della riunificazione tedesca e, successivamente, dell’euro.


La politica dei redditi in America

Sarebbe un errore ridurre la politica di concertazione, nelle sue varie forme più o meno istituzionalizzate, a una vocazione specificamente europea, o come si direbbe oggi della “Vecchia Europa”, tendenzialmente incline a eludere la durezza dei conflitti sociali e alla ricerca della mediazione come riflesso di una specifica antropologia politica. In condizioni del tutto diverse, sono stati gli Stati Uniti a fornire, una teorizzazione della politica dei redditi – architrave della concertazione - come parte integrante e determinate della politica economica quando questa è diretta a creare occupazione e sicurezza sociale in un quadro di cooperazione con e tra le parti sociali.

La novità fu introdotta da John Kennedy, e si trattò in America di una sorta di rivoluzione che rovesciava il dogma della non interferenza federale nelle relazioni industriali, storicamente governate dai rapporti di forza tra imprese e sindacati. Il presidente, alle prese con un alto livello di disoccupazione ereditato dalle passate amministrazioni, istituì un comitato di consiglieri per la politica economica formato da un terzetto che comprendeva Walter Heller (che ne era a capo), James Tobin e Gardner Ackley. La missione era l’elaborazione di una politica macroeconomica in grado di attaccare la disoccupazione. Il Comitato dei consiglieri si orientò verso una politica monetaria e fiscale apertamente espansiva, diretta a dare una forte accelerazione alla crescita, sollecitando insieme investimenti e consumi, come condizione per il rilancio dell’occupazione. Una politica di stampo keynesiano che implicava, tuttavia, un alto rischio politico: vale a dire, l’innesco di una spirale prezzi-salari con la conseguente stretta monetaria della Federal Riserve e il fallimento dell’obiettivo che si era posto la presidenza.

La soluzione fu trovata nel coinvolgimento esplicito di imprese e sindacati – a quel tempo molto forti – in quella che pudicamente fu definita una “direttiva su prezzi e salari”. Direttiva che raccomandava “un aumento salariale medio non superiore alla media nazionale dell’aumento della produttività”. Per chiamarla apertamente politica dei redditi, bisognò aspettare qualche tempo. Intanto, il successo fu inequivocabile. Ma, chiaramente, si trattava, per il paese campione della libertà di mercato, di un importante cambiamento e, per molti versi, ideologico. La svolta diede il via a “una storia di successi”, secondo il commento che Guido Carli dedicò al libro di W. Heller,“Nuove dimensioni dell’economia politica”.

Negli anni successivi la crescita americana manifestò un ritmo elevato e stabile, la disoccupazione scese al di sotto del 4 per cento, i salari registrarono un’elevata crescita reale, ma senza spinte inflazionistiche. Quello che era stato, nella breve stagione kennediana, un esperimento considerato ad alto rischio politico fu consolidato sotto la presidenza di Lyndon Johnson. La politica che era stata timidamente definita “dei prezzi e dei salari” assurse al rango formale di politica dei redditi, esplicitamente assistita dalla politica fiscale (Tax based income policy). E fu in quel periodo che negli Stati Uniti fu realizzata la più vasta politica di riforme sociali, dopo il New Deal, che andò sotto l’etichetta di “Grande società”.

La lezione era sorprendente, provenendo dal paese dell’economia di mercato per antonomasia, e al di fuori dei tradizionali schemi socialdemocratici tipici dell’esperienza europea. Non si trattò soltanto dell’applicazione di una politica quantitativa della domanda, secondo una riduttiva interpretazione keynesiana, ma del suo intreccio con una politica qualitativa dell’offerta e della spesa pubblica, nell’ambito di una politica economica complessiva. Applicata sia nella fase di caduta della domanda e dell’occupazione, sia in quella successiva di surriscaldamento dell’economia determinata dalla spesa per la guerra del Vietnam. In altri termini, la politica dei redditi era diventata l’asse di un programma economico generale che fu battezzato come “Nuova economia”, per sottolineare sia la svolta politica kennediana, sia l’affermarsi di una nuova concezione della politica economica. Essa forniva un sigillo teorico alla politica dei redditi, il cui elemento distintivo era l’inserimento delle politiche salariali, sotto l’egida dei sindacati, in un quadro dinamico di politica economica. Una lezione di successo, ma che da sola non poteva bastare a fronteggiare l’intreccio delle crisi degli anni 70. Poi, con l’avvento di Reagan, la politica dei redditi fu definitivamente ripudiata in nome della controrivoluzione neoliberista – il nuovo pensiero convenzionale con il quale ancora oggi si debbono fare i conti.


Una storia incompiuta: Il patto sociale in Italia

Non è questa la sede per un’analisi delle premesse e degli esiti del Patto sociale stipulato in Italia nel 1993. Si può, tuttavia, affermare che esso rappresentò, dopo i numerosi tentativi incompiuti o abortiti, un esperimento che raccoglieva e, per molti versi, sintetizzava la variopinta esperienza dei paesi che su questa strada l’avevano preceduto. L’intestazione stessa dell’Accordo indica esplicitamente come obiettivo centrale la “politica dei redditi e l’occupazione” insieme con “gli assetti contrattuali, la politica del lavoro e il sostegno al sistema produttivo”. Si tratta probabilmente del più sofisticato tentativo di generalizzazione e istituzionalizzazione della politica di concertazione.

Ma si collocava in un quadro di grandi difficoltà economiche per il paese. Gli spazi di manovra del governo in termini di politiche macroeconomiche erano pressoché inesistenti. Si trattava di tamponare la crisi inflazionistica, che faceva seguito alla svalutazione della lira, e bloccare il dissesto dei conti pubblici. In pratica, la politica dei redditi significava l’adozione di una lunga fase di moderazione salariale in vista del doppio obiettivo del risanamento e dell’entrata nell’euro: missione, questa, che appariva molto ambiziosa, se non velleitaria, considerate le distanze dai severi criteri di riequilibrio finanziario di Maastricht.

Alla luce di queste circostanze, il Patto poteva essere letto come una politica dei “due tempi”: quello del risanamento reso indispensabile dalle circostanze in cui si trovava il paese, al quale avrebbe fatto seguito, una volta raggiunto il traguardo dell’euro, una fase di crescita sostenuta, di pieno rilancio dell’occupazione, di riequilibrio dei salari. In effetti, questo secondo tempo era più o meno iniziato, quando fu troncato dall’avvento de governo Berlusconi e dal sostanziale ripudio della concertazione e degli impegni che comportava. Ciò che si può dire, al di là delle luci e delle ombre che caratterizzarono quell’Accordo, è che certamente senza di esso e senza il convinto sostegno dei sindacati, difficilmente l’Italia sarebbe entrata, alla prima scadenza, nell’euro. E, considerata la permanente precarietà della sua finanza pubblica, con una lira disancorata dall’euro e con tassi d’interesse regolati dai mercati finanziari, la situazione sarebbe finita molto probabilmente fuori controllo.


L’avvento dell’euro

Quale che sia il giudizio sulle diverse esperienze di concertazione della seconda parte del secolo scorso, rimane il fatto che i tre presupposti, che abbiamo visto in vario modo combinarsi, oggi sono in crisi. In generale, subiscono i contraccolpi della globalizzazione dei mercati che si riflette sulla stabilità dei sistemi imprenditoriali, che cercano di reagire all’intensificazione della concorrenza, premendo sulle condizioni di lavoro. I sindacati, dal canto loro, accusano un crescente problema di rappresentatività, al cospetto della frammentazione del mercato del lavoro, del decentramento della produzione, della terziarizzazione dell’economia. Rispetto a questi due aspetti vi sono, tuttavia, possibilità di reazione. Non tutti i sistemi industriali sono in crisi. E i sindacati, benché indeboliti, presentano gradi diversi di difficoltà e di capacità di reazione. Il cambiamento più radicale sta nella perdita di elementi essenziali della sovranità economica dei governi entrati a far parte di un’area monetaria unificata, com’è l’euro.

Il cambiamento è evidente. La politica monetaria è passata sotto la sovranità della Banca centrale europea. A livello nazionale non vi è più la possibilità di agire sul cambio. La politica di bilancio è vincolata ai parametri del Patto di stabilità. Quanto alle politiche industriali, le regole della concorrenza comunitarie che vietano gli aiuti di Stato impediscono gli interventi che, con esiti alterni, hanno consentito in passato di accompagnare i processi di ristrutturazione. In sostanza, vengono meno a livello nazionale, alcune delle condizioni essenziali delle mediazioni e dello scambio nei quali si articolano la politica dei redditi e, più in generale, gli accordi di concertazione.

La politica di concertazione, resa zoppa a livello nazionale, avrebbe potuto trovare nuova linfa nel contesto europeo o, più precisamente, dell’eurozona. Considerata nel suo insieme, l’Europa con un mercato interno in espansione, tendente a mezzo miliardo di abitanti, e con una moneta di riferimento, diventava una potenza a livello globale, che poteva consentirsi una grande autonomia di manovra della politica economica. A livello europeo, e non più nel ristretto ambito nazionale, erano stati trasferiti gli strumenti per decidere la politica monetaria e del cambio, le linee generali delle politiche di bilancio e, per alcuni aspetti essenziali, le linee di politica industriale. In sostanza, il quadro di riferimento delle politiche dell’offerta e della domanda, a cui associare una politica dei salari e dell’occupazione, si trasferiva dal tradizionale livello nazionale a quello europeo.

L’idea di una concertazione in grado di rinascere a nuova vita, nello spazio economico e sociale dell’eurozona non era una novità sorprendente. Era stato Jacques Delors – protagonista del disegno che avrebbe portato con Maastricht alla moneta unica - a indicare, col Libro bianco su “Crescita competitività e occupazione”, una strategia coordinata di sviluppo, oltre ad aver gettato le basi del dialogo sociale europeo. In sostanza, con la realizzazione della moneta unica, l’Europa avrebbe potuto fare quello che è impossibile da parte di un singolo stato di medie dimensioni: fronteggiare la sfida della globalizzazione – un lusso che attualmente, in modo diverso, possono consentirsi solo gli Stati Uniti e la Cina.


Verso un patto sociale europeo?

Una volta sciolto il nodo dell’euro, prioritaria diventava la questione della disoccupazione che alla fine del decennio era ancora intorno al dieci per cento. Su iniziativa del ministro del lavoro francese, Martine Aubry, in accordo con quello italiano e tedesco fu elaborato un memorandum che divenne la base della strategia adottata dal Consiglio europeo di Lisbona all’inizio del 2000. Il progetto prevedeva che tutte le politiche sia di competenza comunitaria che degli Stati membri dovessero convergere verso l’obiettivo di una crescita media annua dell’Unione del tre per cento in una prospettiva di pieno impiego entro il 2010. Nel corso dell’elaborazione apparve chiaro che il progetto sollevava riserve e ostilità nei governi, a cominciare da quello britannico – che pure era fuori dell’euro - come nella Banca centrale e in una parte degli uffici della Commissione europea che vi leggeva un intento “volontarista”, e un rischio di instabilità dal punto di vista dell’inflazione e della finanza pubblica.

Non mancarono i tentativi di mediazione tra una strategia di crescita sostenuta e la preoccupazione di salvaguardare la stabilità monetaria. Nel Consiglio europeo di Colonia dell’estate 1999 era stato formalizzato il “Dialogo macroeconomico” attraverso un tavolo di confronto fra le parti sociali europee, la BCE, Ecofin e la Commissione europea. Questa poteva essere la premessa istituzionale e politica di un esperimento di accordo a livello europeo per indicare in termini convergenti i criteri ispiratori di una politica salariale compatibile con una crescita non inflazionistica. Non se ne fece nulla. Il “dialogo” divenne uno “scambio di opinioni” privo di significato, una scatola vuota. Il progetto di Lisbona, che poteva essere il terreno di un grande accordo economico e sociale, fu sterilizzato da un’interpretazione che continuava a porre la questione dell’occupazione come un problema del mercato del lavoro dei singoli Stati membri. A quattro anni di distanza, l’Europa fa segnare non una crescita sostenuta e duratura, ma una stagnazione quasi permanente e un aggravamento della disoccupazione.

E’ necessario, tuttavia, essere chiari su un punto. Il rifiuto di sperimentare le politiche di cooperazione tipiche del modello sociale europeo non riflette una posizione puramente contingente o un errore di percorso. Quel rifiuto ha radici profonde in una concezione della politica economica e sociale che fa discendere in termini sostanzialmente esclusivi le condizioni dello sviluppo dell’occupazione dalle “riforme di struttura” del mercato del lavoro e del sistema di tutele – diritto del lavoro, contrattazione sindacale, legislazione sociale – che caratterizza le relazioni industriali dell’Europa continentale.

In un famoso rapporto dell’OCSE del 1994 (Jobs Study), diventato la bibbia delle riforme neoliberiste del mercato del lavoro, era stato tutto spiegato con dovizie di argomenti. La disoccupazione, nell’analisi dell’Ocse, è l’inevitabile conseguenza della rigidità del mercato del lavoro. Se l’offerta di lavoro si presenta sufficientemente flessibile, mobile, adattabile, vi sarà sempre un livello di salario di piena occupazione. “In linea di principio – scrivevano con mirabile chiarezza gli economisti dell’Ocse – vi sarà un livello di salario reale, o più correttamente un livello di costo del lavoro reale che assicura che tutti coloro che vogliono un lavoro a quel livello di salario troveranno un’occupazione”.

Questa teoria dell’offerta, dai nobili natali e vecchia di quasi due secoli, considera l’interferenza delle politiche macroeconomiche dirette a creare migliori condizioni per l’occupazione del tutto illusoria: “una chimera”. Anzi, un profondo errore, per il fatto che le politiche dirette ad accrescere la domanda sono dei palliativi che allontanano il momento della verità delle riforme strutturali: “Nell’area del mercato del lavoro sono proprio i tempi di un’elevata disoccupazione che rendono possibile la spinta ai cambiamenti”. Come si vede, la disoccupazione di massa non è solo un problema, ma un’occasione per adottare le misure (impopolari) che in circostanze ordinarie sono bloccate dalle resistenze che s’incontrano sul piano sindacale e politico.

Naturalmente, queste tesi non sempre sono presentate con la stessa brutale franchezza che troviamo nello studio dell’Ocse, prodotto su ordinazione dei governi aderenti. Esiste un linguaggio meno diretto, “politicamente corretto”, che è in generale quello adoperato nei bollettini della Banca centrale europea e dalle tecnocrazie che a Bruxelles elaborano i documenti di Ecofin (il Consiglio dei ministri finanziari). Ma la sostanza non cambia. E l’idea di una politica di concertazione e di mediazione fra i diversi strumenti della politica economica e i comportamenti dei partner sociali stride con la compattezza (ideo)logica delle posizioni neoconservatrici che attraversano le istituzioni finanziarie europee.

Posto, dunque, che per un eventuale patto sociale a livello europeo, bisognerà attendere altri tempi, torniamo a chiederci: è possibile provare a fare concertazione in un solo paese? Uno sguardo alla Germania può essere ancora utile per fornire una risposta, o per chiarire le difficoltà di una risposta.


La concertazione in un solo paese?

Il cancelliere Shroeder, una volta riportata al governo la SPD dopo il lunghissimo regno di Kohl e le difficoltà della Germania seguite alla riunificazione tedesca, tenta apertamente la strada della concertazione, attraverso l’”Alleanza per il lavoro”. Si tratta, questa volta in modo esplicito, di coinvolgere i sindacati, le rappresentanze imprenditoriali e il governo in una politica diretta a intrecciare crescita, salari, occupazione e riforme sociali. La partenza è positiva, perché per la prima volta, i sindacati tedeschi sono disponibili a impegnarsi su una politica salariale che assume la produttività come parametro di riferimento. L’obiettivo è la garanzia della stabilità dei prezzi per aprire la strada a una politica macroeconomica espansiva, diretta ad accrescere investimenti e occupazione. Ma con l’avvento dell’euro, come abbiamo visto, il quadro cambia profondamente.

Prima dell’euro, Bundesbank e ministro delle Finanze, in presenza di un blocco della crescita, avrebbero potuto intervenire sul cambio per impedirne una pesante rivalutazione sul dollaro, con le conseguenze che questo comporta per la competitività di una grande economia esportatrice, com’è la Germania. Con l’euro non è più possibile. Quanto alla politica monetaria della BCE, i suoi tassi d’interesse sono doppi di quelli americani, mentre l’inflazione tedesca è costantemente più bassa, accentuando il divario in termini reali. Il patto di stabilità imposto da Theo Waigel, il ministro delle finanze tedesco, come pregiudiziale per il passaggio all’euro, ironia della storia, blocca la possibilità di utilizzare la politica di bilancio in direzione anticiclica. (I successivi sforamenti del patto di stabilità non rientrano in un piano di contrasto alla stagnazione, ma ne rappresentano la conseguenza non intenzionale, e mettono la Germania in una posizione di difesa e di disagio politico rispetto alle istituzioni europee).

L’”Alleanza per il lavoro” non decolla, riducendosi progressivamente alla richiesta unilaterale di riduzione della spesa sociale (sanità, pensioni, indennità di disoccupazione) e alla moderazione salariale, mentre cresce la disoccupazione, mediamente del dieci per cento, mentre raggiunge il 20 percento nei Länder dell’est. L’esperimento della concertazione in un solo paese, sia pure forte come la Germania con una bilancia commerciale largamente attiva, non funziona. L’esperienza tedesca dimostra, in altri termini, la difficoltà di attuare la concertazione in un solo paese, quando gli strumenti di sovranità della politica macroeconomica sono stati trasferiti a livello sopranazionale. Tra l’altro, le conseguenze sono pesanti anche sul piano politico, se si considerano la caduta di consensi verso i tradizionali partiti di governo e l’emersione di forti spinte protestatarie che si collocano alle estremità dello schieramento politico.


Fondamentalismi di mercato

Ma come si spiega il disinteresse, quando non un’aperta ostilità, delle istituzioni finanziarie europee per una politica di concertazione tradizionalmente garante di una crescita economica non inflazionistica? In effetti, non si tratta di disinteresse o di colpevole negligenza, quanto di un diverso ordine d’idee. E come ammoniva Keynes: “Le idee degli economisti e dei filosofi politici, sia quando sono sbagliate sia quando sono giuste, sono più influenti di quanto comunemente si creda”. La convinzione dominante - vi abbiamo fatto cenno - è che il problema dell’Europa, della sua ridotta crescita e dell’elevata disoccupazione non sta nelle politiche macroeconomiche, ma nelle mancate “riforme di struttura” o, quando ci sono, nella loro inadeguatezza. La Banca centrale svolge in questo senso un’instancabile funzione pedagogica: i governi debbono portare il bilancio in equilibrio, ridurre la spesa sociale (pensioni e sanità, in primo luogo) e liberalizzare il mercato del lavoro.

Non si tratta, come abbiamo visto, di tesi particolarmente originali. Sono le politiche neoliberiste, assurte a nuovo splendore nel mondo anglosassone già negli anni 80, e poi ribadite dalle grandi istituzioni internazionali (FMI, Banca mondiale, Ocse) che producono analisi e raccomandazioni per i governi. Eppure si tratta di analisi e raccomandazioni che, alla prova dei fatti, hanno dimostrato la loro inclinazione ideologica più che l’efficacia pratica. Negli Stati Uniti, il paese della deregolazione per eccellenza, è bastato un anno di congiuntura sfavorevole per provocare un aumento del 50 per cento della disoccupazione, dal 4 al 6 per cento nei primi due anni della presidenza Bush. E, ancora alla fine del suo mandato, si registrano otto milioni di disoccupati, ai quali molti analisti americani aggiungono l’incredibile numero di due milioni di carcerati in età di lavoro. La deregolazione del mercato del lavoro, la moltiplicazione delle occupazioni precarie, la progressiva riduzione del peso del sindacato (che ormai rappresenta nel settore privato meno del dieci per cento degli addetti) e del numero dei lavoratori coperti dalla contrattazione hanno creato la categoria dei “lavoratori poveri”, mentre 35 milioni di cittadini americani non superano la soglia della povertà, e 45 milioni di cittadini, fra i quali 11 milioni di bambini, sono privi di assistenza sanitaria. Siamo di fronte a un’ulteriore, ineccepibile dimostrazione che deregolazione e bassi salari non sono l’antidoto alla disoccupazione, quanto piuttosto all’origine di una metamorfosi dell’organizzazione del lavoro in uno stato di precarietà endemico che coinvolge,in primo luogo,le nuove generazioni e, particolarmente, le donne. Le nuove tecnologie informatiche avrebbero dovuto rendere il lavoro più libero, più creativo e soddisfacente. Ma, ammesso che questo sia vero per un’elite di lavoratori, la stragrande maggioranza ha visto peggiorare le condizioni di lavoro.

E’ cresciuta l’ansia per il futuro del proprio lavoro, del reddito, delle condizioni di vita. Se una macchina diventa più rapidamente obsoleta ed è messa da parte, non piange sul proprio destino –scrive in un articolo del New York Times Alain de Botton, autore di “Status anxiety” – ma il lavoro appartiene a soggetti che provano emozioni e vedono cambiare la loro vita. In America sono aumentati tra i lavoratori i giorni di malattia, i ricoveri in ospedale le malattie cardiache, gli stati di malessere dipendenti dallo stress legate all’organizzazione del lavoro e alla sua precarietà, E non si tratta solo di strati marginali della popolazione lavoratrice. Robert Reich, ex ministro de lavoro dell’amministrazione Clinton, ha parlato, riferendosi ai “colletti bianchi”, considerati il nerbo dei ceti medi tradizionali, di una nuova “classe ansiosa”. “I sostenitori e i militanti della flessibilità – scrive Zygmunt Bauman in La solitudine del cittadino globale – non perseguono la libertà di movimento per tutti, ma la vivificante leggerezza dell’essere per alcuni, che ricade come un insostenibile oppressione del fato su tutti gli altri”.


Le diverse facce della flessibilità

Il discorso sulla flessibilità merita, tuttavia, qualche ulteriore articolazione. Quando constatiamo che la deregolazione raccomandata dall’Ocse e da altre istituzioni finanziarie internazionali, come garanzia di piena occupazione ed efficienza economica, si è dimostrata uno strumento fallimentare, non intendiamo indulgere a un nostalgico ritorno al passato, al tempo in cui imperava la rigidità dell’organizzazione del lavoro fordista. Quel modello è crollato anche sotto l’urto delle lotte operaie.

La flessibilizzazione nasce, innanzitutto, come tendenza a rimodellare l’organizzazione del lavoro, per liberarla dall’ottusa, insopportabile e, alla fine, inefficiente rigidità degli scenari tayloristi che hanno segnato l’industrializzazione del secolo scorso. Sotto questo profilo, la flessibilità non è un fattore intrinsecamente negativo. Al contrario, ha in sé i presupposti per diventare un terreno di mediazione tra le esigenze di elasticità della produzione, in un’epoca di rapidi cambiamenti tecnologici e d’instabilità dei mercati, e le esigenze soggettive, determinate da nuovi bisogni e stili di vita. Il problema nasce quando viene meno un potere di controllo e, più in generale, di negoziazione e di mediazione. E questo potere tende a dissolversi, quando la flessibilità viene assunta come criterio generale di organizzazione dei rapporti di lavoro, come strumento di destabilizzazione, che sconvolge la relazione fra l’individuo e il lavoro, assoggettandolo al contingente e volubile rapporto fra domanda e offerta, come una qualsiasi merce disponibile in un “discount”. Assistiamo, allora, alla trasformazione perversa della sua potenziale e originaria funzione di arricchimento della condizione di lavoro, e di possibile fonte di efficienza. Insomma, il problema non è la flessibilità in sé, ma la sua metamorfosi “ideologica”, la sua adozione come strumento che tende a ridurre i rapporti sociali di lavoro a meri rapporti di mercato. A trasformare la flessibilità in precarietà, insicurezza, elemento di frustrazione e di ansia: a diventare - secondo il titolo del un saggio di Richard Sennett – un fattore di “corrosione dell’identità”.

In altre epoche della storia del lavoro, il problema dei sindacati e della contrattazione fu il controllo della rigidità, l’allargamento delle sue maglie, l’inserimento di strumenti di controllo individuale e collettivo sull’ambiente di lavoro. Fu un’operazione difficile e con esiti alterni ma, nell’insieme, non priva di successi. Nella nuova fase il problema del controllo sull’organizzazione del lavoro non è più la rigidità ma la flessibilità. Per quanto messa in crisi dalla violenza dei cambiamenti che hanno investito i processi produttivi, la contrattazione rimane l’unico strumento che si conosca per un intervento collettivo diretto al negoziato, alla mediazione e al controllo sull’organizzazione del lavoro e sui criteri di flessibilità che la informano.

E’ anche vero – come lo era in passato – che la contrattazione non è uno strumento autosufficiente nel creare condizioni socialmente accettabili in un’epoca in cui i cambiamenti non riguardano solo il modello di produzione ma l’insieme dei rapporti sociali. Umberto Romagnoli ha scritto che lo sciopero politico è stato nella tradizione operaia lo strumento d’intervento nella determinazione delle politiche sociali che sfuggono al dominio della contrattazione. E che, per quanto possano apparire contrastanti, le politiche di concertazione sono l’altra faccia della stessa medaglia: vale a dire il perseguimento con mezzi diversi di obiettivi che, per il loro carattere generale e di penetrazione della sfera politica, sfuggono alle possibilità della contrattazione. Potremmo aggiungere che le due strategie tendono, in alcune circostanze, ad alternarsi più che a escludersi. In Italia abbiamo visto susseguirsi nel giro di un decennio il più avanzato disegno di concertazione e poi le più aspre manifestazioni di massa su temi che investivano direttamente le scelte politiche del governo in tema di legislazione del lavoro e politiche sociali.

La concertazione, per andare oltre una banale dichiarazione di buone intenzioni, deve rispondere a problemi di carattere generale che trascendono il campo della contrattazione. I sindacati sono alle prese con un mondo del lavoro frammentato e sfuggente ai paradigmi tradizionali della rappresentanza. Nelle società industriali fra un quarto e un terzo della forza lavoro vive in una condizione di lavoro segnata da indeterminatezza e discontinuità, oscillando fra condizioni di occupazione e disoccupazione, part time (non volontario), lavoro a termine, lavoro, pseudo-indipendente, lavoro informale. In quest’area grigia, che non è solo quella della disoccupazione, ma che riguarda fasce crescenti di lavoro, la contrattazione è importante per fissare i criteri di riferimento, rendere trasparenti i divari e colmare, quando ci riesce, le differenze più stridenti nelle condizioni di lavoro.

Questo è il terreno delle politiche pubbliche e della rete di protezione dello stato sociale, degli entitlements, secondo l’espressione americana. E’ il terreno della concertazione - o dello sciopero politico inteso nelle varie forme di manifestazione di massa che puntano a mutare gli indirizzi di politica economica e sociale del governo. Ma quali obiettivi generali può porsi la concertazione, nel quadro dei vincoli che derivano dal trasferimento di pezzi importanti della sovranità nazionale in materia economica? Il discorso torna, a questo punto, sulle politiche pubbliche utilizzabili per produrre innovazione, crescita, occupazione, equità. Considerata la perdita d’autonomia su alcuni strumenti rilevanti come la politica monetaria e il cambio, due rimangono i punti di riferimento fondamentali della concertazione: la contrattazione e la politica fiscale.


Politica fiscale e sviluppo

La politica fiscale è uno strumento polivalente, i cui effetti incidono da un lato sulle condizioni della produzione, dall’altro sul sistema della sicurezza sociale. Il primo aspetto si riflette sulle politiche d’innovazione e di competitività del sistema produttivo del paese. E, in particolare, sugli assetti industriali, ai quali si legano importanti aspetti del progresso scientifico e dell’innovazione dei processi e dei prodotti.

Nell’infinita e stucchevole diatriba fra primato della grande impresa o della minore, il risultato è stato, in Italia, l’impantanamento di qualsiasi strategia di sostegno al sistema industriale di cui disponevamo e, in misura sempre più esigua, disponiamo. In un libro degli anni 90 (“Lean and Mean”), Bennet Harrison, uno dei maggiori studiosi americani della riorganizzazione industriale negli scenari dell’economia globale, convinto assertore dell’egemonia della grande impresa, sostenne che l’eccezione era costituita dal sistema delle PMI italiane, che con la loro organizzazione a rete presentavano comportamenti e modelli di organizzazione produttiva per molti aspetti simili a quella della grande impresa e talvolta addirittura più efficienti.

Sia pure in condizioni profondamente diverse - nelle quali la guerra ha fatto premio su ogni altra preoccupazione, decretando la sconfitta democratica - è interessante tornare su alcuni aspetti del programma economico di John Kerry. L’amministrazione Bush ha creato una situazione nella quale i tassi d’interesse possono solo essere aumentati, la svalutazione del dollaro ha superato ogni previsione, i conti pubblici, lasciati in attivo da Clinton, accusano un disavanzo di oltre 400 miliardi di dollari. Kerry, non ostante si trattasse del paese che è al centro dell’impero, sapeva che lo spazio di manovra era estremamente ridotto e consentiva solo misure fiscali fortemente selettive. In breve, (oltre all’eliminazione della scandalosa riduzione delle imposte per l’uno per cento più ricco della popolazione), un uso massiccio del credito d’imposta per gli investimenti delle imprese e delle famiglie diretti all’innovazione nei settori industriali e nei servizi di punta (energie alternative, biotecnologie, nuovi prodotti), l’estensione dei servizi informatici, l’istruzione e la formazione, il sostegno alle imprese minori. E’ interessante che nel paese dove lo “Stato minimo” è una sorta di mito nazionale, il partito democratico si proponeva un modello di politica macroeconomcia centrato su una spesa pubblica rigorosamente programmata e selettiva, finalizzata ad accrescere contestualmente l’offerta e la domanda nei settori dell’innovazione e della job creation.


Mercato del lavoro e politiche sociali

Il tema dell’occupazione e della rete di tutele sociali è l’altro terreno che qualifica la politica sociale e, inevitabilmente, il senso della concertazione. In società certamente più povere, come erano quelle europee e americana della prima parte del XX secolo, furono promosse le riforme sociali destinate a creare una rete di protezione contro i rischi derivanti da uno stato di disoccupazione involontaria, dall’insufficienza del reddito familiare, dalle infermità, dalla vecchiaia. Oggi, nel mezzo di società immensamente più ricche, da un lato si chiede la disponibilità a un lavoro discontinuo, parziale, dalla durata incerta; dall’altro, le indennità per la disoccupazione rimangono legate alle stesse condizioni di eleggibilità di quando il rapporto di lavoro tendeva a essere permanente e a tempo pieno. Le riforme di struttura del mercato del lavoro hanno come obiettivo di sancire la normalità di un lavoro discontinuo, banalizzando l’alternanza fra periodi di lavoro e di disoccupazione, senza contestualmente provvedere a garantire una decente continuità del reddito. I periodi di disoccupazione non sono coperti, perché prima non si è lavorato (e pour cause) un periodo sufficientemente lungo. Quando poi i criteri di ammissibilità si realizzano, l’indennità di disoccupazione è, nel caso italiano, ridicolmente bassa e limitata nel tempo.

In Italia si discute da anni sulla necessità di instaurare un regime di ammortizzatori sociali, senza individuare una soluzione per mancanza di risorse: quelle risorse che oggi il governo promette di utilizzare per ridurre le imposte di chi un reddito ce l’ha, e soprattutto di quelli che ne hanno di più. Dopo decenni di assistenzialismo come strumento di scambio elettorale, oggi si bolla come assistenzialismo qualsiasi politica pubblica mirata a creare occupazione o a sostenere il reddito di quanti, pur lavorando, vivono al di sotto o intorno alla soglia della povertà. Eppure la teoria allarmistica di una crescita illimitata della spesa sociale per soddisfare i nuovi bisogni si è dimostrata infondata. Nei paesi con un’ elevata sicurezza sociale, la spesa si mantiene stabile in relazione alla ricchezza nazionale, mentre in Italia rimane consistentemente al di sotto della media europea. Il pensiero convenzionale ammonisce che un’elevata spesa sociale, finanziata dalla contribuzione o dal prelievo fiscale, riduce l’occupazione, agitando il fantasma della contrapposizione fra strati di lavoratori “privilegiati” e strati marginali. L’esperienza insegna il contrario: paesi come la Svezia e la Danimarca con la più alta spesa sociale nel mondo fanno registrare anche il più alto tasso di occupazione maschile e femminile in Europa, superiore perfino agli obiettivi a lungo termine fissati dal Consiglio europeo di Lisbona.

Si fa di tutto per enfatizzare una contrapposizione di generazioni, ma ai giovani non si garantisce né lavoro, né formazione oggetto di una sconfinata retorica a cui non corrisponde un minimo decente di risorse. In compenso, gli si promette un sistema pensionistico “fai da te” che riduce la garanzia pubblica del sistema a ripartizione e, paradossalmente, pretende di coprire il rischio della vecchiaia con l’assunzione del rischio derivante dai mercati finanziari. L’ultima proposta di Bush punta alla privatizzazione definitiva del sistema sanitario e della Social security, il sistema pensionistico pubblico, all’insegna della “Ownership society”, una società di proprietari. Vale a dire, ogni persona dovrebbe avere un proprio piano di assicurazione sanitaria e di assicurazione pensionistica. Lo Stato federale si assumerebbe l’onere di forti agevolazioni fiscali, pur di vedere realizzato una taumaturgica onnipresenza del mercato. Come dire: ciascuno per sé, il mercato per tutti. Ma non tutti sono uguali di fronte ai rischi dell’infermità o di una vecchiaia in condizioni di miseria. E l’intensità del rischio cambia nel corso della vita. Scrive su "Business Week" Robert Kuttner: "Ciò che Bush realmente propone è il trasferimento dei rischi su ciascun individuo – e questo, proprio quando le altre fonti di sicurezza economica, come l’occupazione a lungo termine e la garanzia della pensione sono a repentaglio”.

Potremmo affermare che siamo di fronte a chiari segni di paranoia ideologica, se concretamente non si trattasse di allargare smisuratamente il campo della speculazione finanziaria. Il sistema sanitario americano, già oggi largamente privatizzato, è il più costoso del mondo, intorno al 14 per cento del PIL contro una media dell’8 per cento nell’Unione europea. Con una differenza macroscopica. I sistemi europei, su base fiscale o contributiva, forniscono una copertura universale, mentre negli USA 45 milioni di cittadini, ci cui 11 milioni di bambini, sono privi di assistenza.

Quanto al sistema pensionistico, l’unico regime di sicurezza sociale con una copertura universale, risalente alle grandi riforme del New Deal di Roosevelt, è uno dei pochi al mondo a non presentare problemi di sostenibilità finanziaria. Secondo le ultime previsioni della direzione pubblica della Social Security, il bilancio è in equilibrio fino al 2042. Ma non si tratta solo di questo. Le pensioni complementari, basate sui fondi a capitalizzazione, che riguardano circa il 50 per cento dei lavoratori dipendenti, sono intrappolati in una crisi finanziaria che ha destabilizzato l’intero sistema. Il rimedio, che si sta imponendo da alcuni anni è il passaggio dal vecchio sistema, che garantiva una pensione completare predefinita (defined benefit) all’altro che stabilisce l’entità dei contributi (defined contribution), mentre la pensione dipenderà dagli andamenti dei mercati finanziari.

Una politica di sicurezza sociale che tenga conto dei profondi cambiamenti del mondo del lavoro e, in particolare, dei mutamenti del modello di famiglia esige una riorganizzazione del sistema che domanda maggiori, non minori, risorse. Questo rafforza l’esigenza di una politica fiscale rigorosamente selettiva, e con programmi a medio e lungo termine. Da anni si discute degli ammortizzatori sociali, per concludere che in nessun anno si rende disponibile l’ingente ammontare delle risorse necessarie. Ma se si fosse programmato un obiettivo di adeguamento graduale di alcuni istituti - garanzie di una quota decente di reddito e di servizi alle persone e alle famiglie - oggi non saremmo in una condizione sempre più intollerabile. E non si continuerebbe a premere sul sistema pensionistico che è l’unico (insieme con quello svedese) ad essere stato radicalmente riformato. Una riforma, considerata in Italia insufficiente, ma che, secondo le stime di Ecofin, è in grado, in condizioni di crescita normale, di stabilizzare la spesa rispetto al Pil nei prossimi decenni, mentre nella peggiore delle previsioni, ne provocherebbe un aumento fino a due punti, contro un aggravio di quattro-cinque punti in Francia e in Germania.

In flagrante contrasto con l’esigenza di una politica fiscale rigorosamente selettiva e finalizzata a rafforzare i processi di innovazione nel mondo della produzione, a incentivare l’occupazione e a rafforzare le tutele sociali, il governo Berlusconi, scimmiottando le politiche neoliberiste di stampo americano, continua a porre l’obiettivo demagogico della riduzione delle imposte. Perfino negli Stati Uniti, che possono consentirsi per la loro posizione imperiale politiche prive di controllo, l’esito della riduzione delle imposte voluta da Bush – come spiega Paul Krugman – ha esasperato le diseguaglianze, ha contribuito ad allargare il disavanzo pubblico al più alto livello della storia americana, e non ha avuto alcun effetto sull’occupazione che rimane al di sotto del livello ereditato da Bush all’inizio del suo mandato.

Un’alternativa qualitativa nella politica fiscale, sia pure entro i ristretti limiti disponibili, è possibile e necessaria. Lo sarebbe anche senza concertazione. Ma nel quadro di una strategia di concertazione può diventare l’asse di una politica generale di rilancio, nella quale ciascun attore fa la sua parte in termini trasparenti e socialmente accettabili.


Il ruolo della contrattazione nella disarticolazione del lavoro

Tenuto conto dei cambiamenti che investono le economie dei paesi appartenenti a un’unica area monetaria, la politica fiscale e la contrattazione costituiscono le due colonne portanti di una politica di concertazione. L’assetto contrattuale esprime il modello che il sindacato adotta per rappresentare al meglio gli interessi collettivi delle diverse fasce del mondo del lavoro, ponendo attenzione a non sacrificare le più deboli. Da questo punto di vista, nella discussione sul modello contrattuale non si può non tener conto della profonda articolazione-disarticolazione del mondo del lavoro. Su questo terreno ambiguo (articolazione/disarticolazione) si gioca il rapporto fra contrattazione nazionale e contrattazione articolata.

Nella tradizione italiana la prima ha sempre avuto un ruolo centrale per l’unificazione e l’avanzamento delle condizioni di lavoro. Si tratta di una funzione esaurita? Per molti aspetti è vero il contrario. In un quadro di crescente segmentazione dei rapporti di lavoro, il contratto nazionale rimane con maggiore evidenza che in passato il terreno di riferimento unitario, il paradigma unificante nella frantumazione delle forme di lavoro dipendente. Quest’argomento può apparire in contrasto col fatto che, per la loro crescente differenziazione, i lavori non possono essere costretti dentro regole astrattamente uniformi. La flessibilità dell’organizzazione del lavoro esige, in altri termini, di non essere ingabbiata entro schemi troppo generali. Ma a questo appunto deve provvedere la contrattazione articolata, a seconda delle circostanze, per settori, aziende, territori. Alla contrattazione nazionale spetta il compito essenziale di fissare il salario-base, le norme di carattere generale, i criteri direttivi, gli spazi entro i quali si inseriscono gli accordi specifici. Senza questo quadro di riferimento che comprende elementi comuni ed altri negoziabili e specificabili, la contrattazione decentrata finisce col dipendere dai rapporti di forza. E questi sono, per definizione, particolarmente sfavorevoli alle fasce di lavoro più deboli o più flessibili e più precarie. Quelle per le quali l’empowerment, l’attribuzione e il concreto esercizio di un potere di controllo sulle condizioni di lavoro, incontra i maggiori ostacoli, quando non è totalmente inesistente.

Il dibattito sul modello contrattuale non è nuovo. Nel citato rapporto dell’OCSE del 1994 – come abbiamo visto, uno dei pilastri dell’ortodossia neoliberista - la liquidazione della contrattazione nazionale era considerata uno strumento essenziale della deregolazione del mercato del lavoro, la via libera per una flessibilità (deregolazione) a tutto campo, comprensiva della libertà di fissare non solo le specifiche modalità di lavoro, ma anche i livelli salariali nelle singole imprese.

Se la contrattazione nazionale riveste una funzione insostituibile, ciò non esclude che la forma e i tempi possano essere riorganizzati per tener conto dei mutamenti in corso. Probabilmente (la proposta fu avanzata già a cavallo degli anni 90, la contrattazione nazionale, limitata ad alcuni aspetti essenziali e comuni, potrebbe essere gestita a livello di aree multisettoriali dell’industria, dei servizi, del Pubblico impiego, affidando alle varie forme di contrattazione articolata, settoriale, aziendale, territoriale la gestione di quegli aspetti specifici che riguardano la flessibilità, come la gestione degli orari e la quota integrativa del salario, secondo parametri che tengono conto della specificità delle condizioni di lavoro.


La contrattazione nazionale e i salari

Nella tradizione italiana, i livelli salariali fissati nei contratti nazionali di categoria hanno assolto il ruolo che in altri paesi è affidato al salario minimo garantito fissato per legge. La garanzia di un salario minimo è una pratica generale nei paesi industrializzati dove non esiste la contrattazione nazionale. La differenza sta nel fatto che il contratto nazionale fissa l’intera scala parametrale con riferimento al sistema delle qualifiche. Ma è una differenza formale, dal momento che i salari di fatto delle categorie professionali più elevate riflettono generalmente condizioni salariali superiori ai minimi del contratto nazionale. Mentre i “minimi” sono rilevanti per i lavoratori appartenenti ai gradini più bassi della scala professionale per i quali il salario di fatto tende a coincidere con quello contrattuale.

Il salario minimo fissato per legge esiste in paesi con sistemi sociali profondamente diversi, come in Francia e negli Stati Uniti – e così pure in Gran Bretagna dove è stato introdotto da Blair alla fine degli anni 90. La differenza sta nel modo come è regolato. In Francia, paese a noi comparabile, il salario legale è consistentemente più elevato di quello stabilito per le qualifiche iniziali dai contratti nazionali in Italia. Ma la differenza più rilevante è di tipo istituzionale. Il sindacalismo francese è storicamente debole e diviso, e il salario minimo legale supplisce alla mancanza della contrattazione nazionale. Torna certo a vantaggio dei lavoratori avere una garanzia salariale che prescinde dalla frantumazione della rappresentanza sindacale e della contrattazione. Ma è altrettanto chiaro che un aspetto essenziale delle relazioni industriali (la libera negoziazione del salario) è requisita a livello di governo con una sostanziale mutilazione dell’autonomia collettiva.

Diversa è l’esperienza americana. Quando negli Stati Uniti fu istituito il salario minimo, esso corrispondeva a un livello socialmente accettabile. Poi, con gli anni di Reagan, il salario minimo perse progressivamente il potere d’acquisto originario. Oggi, non ostante l’aumento realizzato sotto la presidenza Clinton, con 5,3 dollari orari, non consente nemmeno a un lavoratore a tempo pieno di superare la soglia ufficiale di povertà. Paradossalmente, il salario legale alimenta il fenomeno dei working poor.

In Italia, fungendo da garanzia salariale minima, il contratto nazionale assolve, in primo luogo, a una funzione di solidarietà, tanto più importante quanto più la disarticolazione del mercato del lavoro tende alla frantumazione dei diritti e delle tutele. Ma esso è anche uno strumento essenziale della politica economica, sotto due aspetti apparentemente in contrasto. Da un lato, una dinamica “sproporzionata” dei salari rispetto agli andamenti dell’economia reale, resa possibile da contingenti rapporti di forza in alcuni segmenti del mercato del lavoro, crea tensioni inflazionistiche, e spinge verso manovre restrittive di tipo fiscale e creditizio con effetti negativi sull’occupazione e sulle fasce sociali più deboli. Dall’altro, una dinamica salariale che si collochi al di sotto della crescita reale ha un effetto deflazionistico che si somma a quello di politiche monetarie e fiscali restrittive in circostanze come quelle sperimentate nell’eurozona.

L’effetto deflazionistico diventa, peraltro, inevitabile, quando la contrattazione nazionale del salario è sistematicamente limitata al recupero del potere d’acquisto sulla base dell’inflazione programmata o effettiva. In questo modo la politica salariale viene meno a entrambe le sue funzioni di redistribuzione e di sostegno alla domanda, e quindi alla crescita e all’occupazione. E, paradossalmente, diventa una programmazione “concertata” della riduzione della quota di reddito nazionale destinata ai lavoratori: uno strumento di redistribuzione rovesciata a vantaggio di profitti e rendite.

Si può osservare che l’andamento dei salari di fatto non dipende solo dalla contrattazione nazionale, dovendosi considerare gli incrementi collegati alla contrattazione aziendale e, in alcuni casi, agli aumenti individuali extracontrattuali. Ma sappiamo che queste circostanze riguardano una minoranza di lavoratori, non superiore al 30-40 per cento della forza lavoro. Mentre la maggioranza, e in particolare la fascia sottoprotetta, vedrà inesorabilmente declinare il proprio tenore di vita.

E’ anche vero che in Italia il ricorrente dibattito sul modello contrattuale si collega alle divisioni regionali. E, in primo luogo, alla tesi che vede nella rottura o nell’indebolimento del contratto nazionale e nella riduzione dei salari nel Mezzogiorno uno strumento per incentivare l’occupazione. Ma si tratta di una tesi senza un effettivo fondamento. Innanzitutto, perché i salari di fatto sono già oggi più bassi nel Mezzogiorno. E, in ogni caso, nella nuova Europa dell’allargamento (oggi a 25 e, presto a 27 e oltre) l’Italia non può sperare di contrastare i fenomeni di disoccupazione territoriale agendo sui salari, considerato che nel mercato allargato i salari in euro dei nuovi paesi concorrenti oscillano fra un quarto e un decimo di quelli italiani. Lo sviluppo del Mezzogiorno ha bisogno di altri incentivi, in termini di infrastrutture materiali e immateriali, in grado di creare efficienza e competitività in un sistema imprenditoriale che si presenta sempre di più differenziato, anche se mediamente più debole.

Infine, sono i fatti a dirci che i problemi del Mezzogiorno non stanno in un’ipotetica elevatezza dei salari. Quando tra il 1998 e il 2001, l’Italia conobbe un ritmo di crescita appena “normale”, l’occupazione segnò in tutto il paese una rilevante avanzata (circa un milione e mezzo di nuovi posti di lavoro) e – questo è il punto - la maggiore crescita si realizzò proprio nel Mezzogiorno e, per i due terzi, a favore del lavoro femminile che nelle regioni meridionali accusa il maggiore divario. Si ebbe, in altri termini, la prova empirica del fatto che la disoccupazione media del paese e, in particolare, quella particolarmente elevata delle regioni meridionali non dipendono dalla pretesa rigidità del mercato del lavoro o dall’elevatezza dei salari, ma dalla mancanza di crescita che riflette l’insufficienza della domanda sia dal lato degli investimenti che dei consumi.

La “via bassa” del contenimento dei salari non è fatta per accrescere l’efficienza, ma si presenterebbe come l’ennesima scorciatoia assistenziale, questa volta paradossalmente non a favore, bensì a danno delle fasce più deboli. Il che non toglie che per obiettivi e tempi definiti si potrebbe agire sul costo del lavoro attraverso crediti d’imposta o altri strumenti incentivanti da concordare con la Commissione europea – che certamente commette un errore di sostanza quando ritiene che, per accordare un qualche tipo di agevolazione specificamente finalizzato all’occupazione nel Mezzogiorno, bisogna, per non incorrere nella denuncia per aiuti di stato, estenderla a tutto il paese, comprese le regioni dove la disoccupazione è inferiore alla media europea e spesso inesistente, se non a livello frizionale.

Dal punto di vista più generale del paese, la competitività sui mercati internazionali non può essere trovata nella compressione dei salari e del costo del lavoro, come alternativa alla svalutazione del cambio. Sono le politiche pubbliche che possono, con un offerta mirata di risorse, incentivare i processi di innovazione, utilizzando selettivamente la domanda pubblica, favorendo gli investimenti nell’innovazione da parte delle grandi imprese di servizi, a cominciare da quelle che lo stato controlla con proprie partecipazioni, come del resto fanno i paesi che vogliono avere un ruolo nei processi di globalizzazione. La via del dumping sociale (bassi salari e riduzione delle tutele sociali) può rappresentare il sigillo di un destino di declino, non certo la “via alta” per vincere la sfida dell’Europa e della globalizzazione.


Le asimmetrie della concertazione

La contrattazione è un momento essenziale della concertazione a condizione che ne sia mantenuta l’autonomia. In caso contrario, quando la concertazione requisisce l’autonomia collettiva, creando vincoli rigidi alla contrattazione, assume un carattere inevitabilmente asimmetrico. Nella concertazione, i poteri pubblici e le rappresentanze imprenditoriali assumono vincoli che, in generale, hanno un carattere procedurale. Per esempio, l’impegno al confronto congiunto sugli indirizzi di politica economica, sulle scelte relative alle politiche del lavoro, sugli assetti (tempi, livelli, modalità) della contrattazione. Gli impegni di parte governativa e imprenditoriale indicano accordi di principio, metodologie, procedure, intenzioni programmatiche, ma non vincolano l’esito del confronto o del negoziato.

L’asimmetria diventa palese quando il sindacato è impegnato non solo a rispettare criteri generali, ma quando nel suo campo specifico che è la contrattazione, se ne predetermina l’esito stabilendo, per esempio, che il contratto nazionale sancirà aumenti salariali corrispondenti all’inflazione programmata. In questo caso l’autorità contrattuale del sindacato si dissolve nella registrazione di un dato esteriore. Lo scambio fra gli attori del patto diventa asimmetrico: da un lato, stabilisce una procedura consistente nell’impegno ad aprire un confronto o un negoziato; dall’altro, un vincolo preventivo rispetto all’esito del negoziato. L’asimmetria è altrettanto palese rispetto agli impegni relativi alla creazione di occupazione, in cambio dei quali il sindacato assume impegni di moderazione salariale, di maggiori flessibilità o di deroghe normative. Il primo impegno rimane di carattere generale e difficilmente esigibile. Quelli di carattere sindacale sono sottoposti a un controllo stringente non solo delle controparti, ma della stessa opinione pubblica e della stampa, generalmente non indulgente – per adoperare un eufemismo - con le organizzazioni sindacali.

Questa è una delle ragioni della difficoltà di istituzionalizzare la concertazione in termini di impegni simmetricamente vincolanti. La soluzione non può che risiedere nel riconoscimento del carattere della concertazione come quadro di riferimento che impegna gli attori che vi concorrono al rispetto di principi reciprocamente riconosciuti, procedure e criteri. Ma senza pregiudicarne l’autonomia, da cui pure dipende la democraticità delle scelte e la rappresentatività del sindacato che deve misurarsi col consenso degli iscritti. E, al tempo stesso, con una parte crescente di lavoratori senza “voce”, in nome dei quali partecipa al processo decisionale inglobato nella concertazione.

La concertazione, per la sua stessa natura, è uno strumento di ricerca delle soluzioni più ragionevoli, ma non immunizza le parti dai contrasti di visioni e di interessi. Se funziona, può diventare lo strumento che favorisce una mediazione in avanti dei conflitti in atto o potenziali. Un compromesso comporta sempre limiti nel soddisfacimento degli interessi che si confrontano. E proprio il compromesso (“parola che gode di pessima fame” – scrive lo scrittore israeliano Amos Oz che del compromesso
si dichiara, tuttavia, “gran fautore” di fronte al dramma palestinese) impone che gli attori che vi partecipano abbiano in dote un’effettiva e indiscussa rappresentatività. Quest’esigenza riguarda tutti, ma in termini prioritari il sindacato. Nel momento in cui il sindacato abbandona i lidi tradizionali di una rappresentanza delimitata e finalizzata a rivendicazioni particolari, per assumere la pretesa e il ruolo di un soggetto che entra da protagonista nel processo di determinazione della politica sociale a tutto campo, allora è necessario che la sua rappresentatività sia altrettanto ampia, trasparente e riconosciuta.


Conclusione

Nella concertazione il sindacato mette in gioco la propria credibilità e legittimità molto di più di quanto non accada per gli altri attori. I governi traggono la loro legittimità democratica dal processo elettorale alle scadenze previste e dal sostegno di una maggioranza parlamentare. Il sistema imprenditoriale dispone, in ogni caso, del potere che gli deriva dall’autonomia manageriale delle aziende, mentre ai suoi organi di rappresentanza può rimanere un ruolo generale di carattere politico o lobbistico. Il sindacato, al contrario, non dispone di altre risorse che una rappresentatività continuamente messa alla prova dalla sua capacità di rispondere alle attese dell’organizzazione composta dagli iscritti e dal movimento a cui si sforza di dare voce e dal quale implicitamente riceve, quando le circostanze sono favorevoli, una fiducia sottoposta a revoca. Se la rappresentanza effettiva, al di là delle intenzioni e dei proclami, manca o è limitata solo ad alcuni settori “privilegiati” del mondo del lavoro, la concertazione stessa diventa un bersaglio politico da parte di tutti coloro che si sentono esclusi o penalizzati da scelte attribuite alle diverse burocrazie che si confrontano al di fuori di un processo trasparente e condiviso.

Come abbiamo detto all’inizio, i modelli di concertazione, sotto varie denominazioni e strutture, sono collegati alle tradizioni dei paesi che li adottano. Ma alcuni principi comuni ne condizionano il funzionamento e il successo. Innanzitutto, una concezione della politica che considera la mediazione e il consenso come strumenti di efficienza nel governo della cosa pubblica, non come ostacoli alla governabilità. In secondo luogo, la concertazione può vivere solo in una prospettiva di politica di sviluppo, di crescita dell’occupazione, di miglioramento delle condizioni di lavoro, di promozione dell’ equità sociale. Senza queste premesse di concezione della politica e di convergenza di principio su alcuni aspetti essenziali del modello sociale, la concertazione rischia di diventare un’effimera etichetta di lusso (magari politicamente spendibile) per una scatola vuota. Date queste premesse, la sua attuazione assumerà strade e contorni diversi, a seconda delle specifiche circostanze, ma certamente non può iscriversi nell’ideologia liberista che, sia pure contaminata da una congenita vocazione populista, ha segnato gli anni del berlusconismo, e che ha visto il ministero del Welfare convertirsi in un’agenzia della Confindustria, andando perfino al di là dei suoi interessi meno miopi.

Abbiamo anche visto, analizzando le esperienze del passato, che lo scambio e la mediazione fra le parti in gioco esigono da parte de governo la disponibilità a mettere in opera un insieme di politiche finalizzato alla crescita e alla piena occupazione. Una parte importante di questi strumenti di governo sono migrati dagli stati nazionali verso le istituzioni europee. L’Unione europea, e più realisticamente, la zona euro, dovrebbe essere il nuovo spazio della concertazione. Si può obiettare che non esistono parti sufficientemente rappresentative e legittimate a livello sopranazionale. Ma, in linea di principio, non vi sono ostacoli insormontabili. I sindacati hanno acquisito una rappresentatività già riconosciuta a livello comunitario, quando si tratta di negoziare le direttive europee di carattere sociale. Nella Ces, la Confederazione europea dei sindacati, esiste una procedura di voto a maggioranza che riflette, sia pure con molti limiti, una dimensione decisionale sopranazionale. Dall’altro lato, esistono organi comunitari dotati di piena sovranità, come la Banca centrale. Vi è la Commissione europea dotata di funzioni di coordinamento e impulso delle politiche economiche e sociali. Vi è il Consiglio dei ministri finanziari che esercita un ruolo primario nell’orientamento delle politiche degli Stati membri. Se questi soggetti, conformandosi agli obiettivi proclamati nel Vertice del Consiglio europeo di Lisbona, decidessero di “concertare” le linee di una politica di crescita in grado di coniugare innovazione, occupazione, competitività, non ci sarebbe nessun impedimento di carattere istituzionale.

Ovviamente, bisognerebbe coinvolgere la parte imprenditoriale che è quella più restia a darsi un’effettiva rappresentatività a livello sopranazionale. Ma è altrettanto evidente che non potrebbe sottrarsi (come non si sottrae quando si tratta di legislazione sociale comunitaria) a un rapporto triangolare politicamente impegnativo. Ci si può ancora chiedere quale livello di vincolatività potrebbe essere attribuito a una concertazione di carattere comunitario, scontando i diversi gradi di autonomia che le parti in causa conservano a livello nazionale. Ma qui è evidente che la concertazione non avrebbe caratteri imperativi, ma assolverebbe a una funzione, certamente di grande rilievo nella definizione degli obiettivi e dei criteri direttivi in un quadro coerente finalizzato agli obiettivi comunemente concordati. Si tratterebbe di una concertazione “soft”, ma certamente di un significativo passo avanti nella definizione di un quadro di politica economica comune orientato allo sviluppo e finalmente immune dalla patologica inclinazione deflazionistica che caratterizza l’Unione.

Ma questo appare oggi come un disegno sfortunatamente destinato a rimanere per ora sulla carta. Per concretizzarlo, bisognerebbe far avanzare il progetto iscritto nella nuova Costituzione delle “cooperazioni rafforzate” fra un certo numero di Stati, che come dovrebbe essere il caso dei paesi aderenti all’euro, allo scopo di andare oltre la moneta unica in direzione di una comune politica economica e sociale. Questo potrebbe essere parte di un progetto di governo del centro-sinistra. Ma non è realisticamente proponibile dal governo Berlusconi artefice della rottura del triangolo tra Francia, Germania e
Italia che negli anni 90 aveva favorito l nascita dell’euro e il progetto di Lisbona.

In attesa che nuove condizioni maturino a livello europeo, non rimane che sperimentare l’obiettivo di una rinnovata concertazione a livello nazionale. Ma deve essere chiaro che non può trattarsi della pura ripetizione di vecchi schemi più o meno riusciti. Le condizioni sono profondamente mutate. Gli strumenti a disposizione sono ridotti. E quelli che rimangono -come la politica fiscale, la contrattazione, la regolazione del mercato del lavoro e le politiche di tutela sociale – debbono inquadrarsi in un disegno organico e trasparente di crescita e di innovazione.

Che in Italia si possa realizzare o meno un’accettabile politica di concertazione nell’attuale condizione di dissesto della vita politica è difficile dire in astratto. E, tuttavia, discuterne i termini, le condizioni nuove in cui dovrebbe essere praticata, e gli obiettivi non è cosa diversa da una ricerca unitaria che il sindacato dovrebbe fare anche in assenza della disponibilità indicata dal neo-presidente della Confindustria. Il discorso s’inquadra, per altri versi, nel dibattito, tanto auspicato quanto ancora vago, sulla elaborazione di un credibile programma di governo del centro-sinistra. E questo potrebbe tornare a merito di quanti rilanciano oggi, in condizioni certamente difficili, il tema della concertazione. Ammesso che non si tratti di pure dichiarazioni d’intenzioni, destinate rapidamente a sciogliersi nella effimera retorica di una dialettica politica priva di sostanza.

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