2006/02/02

ENTRE NACIONALISMOS E INTEGRACION TRASNACIONACIONAL

Umberto Romagnoli
(Torino, 01. 09. 2003)

Come eravamo.

Sarà una fissazione, ma non mi stanco di ripetere che i giuristi del lavoro
contemporanei hanno incominciato a “frequentare il futuro” – per usare
l’espressione che, sostiene Antonio Tabucchi, a Pereira “non sarebbe mai
venuta in mente”, però gli piacque moltissimo – senza percepire neanche
l’opportunità di dissotterrare le loro radici culturali. Non mi sorprende
perciò che l’infatuazione per il nuovo che avanza coesista con la
glorificazione dell’esistente. Piuttosto, mi sorprende che non sia stata
ancora rimossa la causa della sconcertante divaricazione. Essa infatti
dipende dalla perdurante scarsità di analisi meno emotive e più
approfondite, consapevoli dell’attualità, ma attente ad una storia ricostruita
in modo non compiacente né polemico.
A mio avviso, il dato di partenza è che, senza volerlo né saperlo, siamo
usciti dal Novecento come i nostri antenati vi entrarono: a casaccio.
Infatti, su occasionali e impreparati interpreti le prime regole del lavoro
salariato dovevano produrre il medesimo effetto – tra l’inquietante e il
divertente – che oggi producono sui turisti di Barcellona le costruzioni di
Antoni Gaudí, l’architetto catalano che progettava con fantasia fanciullesca
case dove non esistono scale o nemmeno una linea retta, perché tutto –
muri porte finestre pareti – segue un movimento ondulatorio.
Vi sono, però, almeno due ragioni che sconsigliano di ridicolizzare o
colpevolizzare i nostri progenitori.
La prima è che anche noi corriamo il rischio di ricevere tra cinquanta o
cento anni analogo trattamento dai nostri nipotini; per questo, sarebbe
prudente mostrarci generosi: così facendo, implicitamente li esorteremmo
all’indulgenza.

La seconda ragione, ovviamente più seria, è che nemmeno la storiografia
ha focalizzato con la precisione desiderabile il contributo recato dal diritto
del lavoro del Novecento alla “quadratura del cerchio”, come Ralf
Dahrendorf compendiosamente definisce la stabilizzazione di un equilibrio
accettabile tra le esigenze fondamentali delle società capitalistiche evolute:
benessere economico, coesione sociale, democrazia politica.

Sarebbe quindi una imperdonabile cattiveria negare ai giuristi a cui toccò
assistere alla nascita del diritto del lavoro tutte le attenuanti del caso,
soltanto perché non compresero subito che le regole del lavoro di matrice
operaia contribuivano a risocializzare, con la promessa di incentivi
premianti e la minaccia di sanzioni, moltitudini di ex artigiani ed ex
contadini, o artigiani non più del tutto artigiani e contadini non più del tutto
contadini, alla forme massificate della produzione manifatturiera –
continuativa, regolare, sorvegliata ed etero-diretta – in luoghi dove non
c’erano mai stati tanti lavoratori e così tanto lavoro in così poco spazio:
tant’è che, come scriverà l’autore di Prometeo liberato, i contemporanei
non riuscivano a collocarli negli schemi conoscitivi a loro più consueti se
non equiparandoli ad “un nuovo genere di prigione in cui l’orologio non è
che un nuovo genere di carceriere”.

E’ altresì vero che il black-out dei giuristi del lavoro dell’epoca avvolse a
lungo in un poco gaudioso mistero le finalità ultime di tutta questa
coercizione uniformante. Soltanto ora però si riconosce senza discutere che
essa era diretta a promuovere l’eguaglianza delle condizioni tra operatori
economici nazionali in competizione tra loro: ne limitava la libertà, e
dunque l’alterava, ma al tempo stesso la normalizzava mediante il divieto
di abbassare gli standards di protezione sociale al di sotto della soglia di
compatibilità con le esigenze del processo d’industrializzazione e della sua
espansione, rendendo così prevedibile il gioco concorrenziale sul versante
del trattamento economico-normativo del fattore lavoro.
Del resto, non potevano rappresentarsi nitidamente la complessità della
situazione neanche i rari giuristi che, mostrando più interesse e simpatia
che smarrimento di fronte all’apparire delle nuove regole ed alla loro
atipicità, lo paragonavano ad “una vena d’acqua che stenta ad aprirsi la via
attraverso la crosta terrestre e si manifesta qua e là in sottili spruzzi e
zampilli, fino a che la forza accumulata della sorgente vince l’ostacolo e
liberamente si sprigiona”.

L’involontario tocco di lirismo, però, non fa soltanto tenerezza. In realtà,
era un modo elegante di manifestare la quieta ma non rassegnata
indignazione dei galantuomini dell’epoca di fronte alle innumerevoli
resistenze e vischiosità che incontra ogni tentativo di migliorare l’etica
degli affari. Adesso, anzi, posso dire che esprimeva un modo d’essere e di
pensare che, con gli occhi della memoria di ex studente della Facoltà
giuridica bolognese, rivedo materializzarsi nel canuto professore che
andava in giro con la lobbia, una sciarpa bianca, un bastone col pomo
d’avorio e fumava esili sigarette di tabacco leggerissimo.
Quando lo conobbi, Enrico Redenti era uno dei più insigni maestri europei
di diritto processuale civile.
Pur riconoscendo in questa singolare personalità un rispettabile e rispettato
rappresentante della borghesia post-risorgimentale, non potevo tuttavia
supporre che il suo aspetto aristocratico ne stilizzava il ruolo svolto nella
fase germinale del diritto del lavoro. Tra l’altro, non sapevo nemmeno che
avesse esordito negli studi giuridici con una ricerca sulla giurisprudenza dei
probiviri industriali istituiti da una legge del ’93 per la soluzione pacifica
delle controversie tra operai e imprenditori; una ricerca che sarebbe rimasta
un insuperato esempio del monitoraggio a cui si prestava egregiamente
quello che sarebbe diventato il diritto del secolo. Solamente più tardi,
infatti, avrei accertato che Redenti aveva militato nel minuscolo drappello
di giuristi-scrittori del primo decennio del Novecento la cui cultura liberaldemocratica
risulterà soccombente nel secondo decennio, allorché il
fascismo recintò con reticolati il territorio praticamente ancora vergine
delle relazioni sindacali e di lavoro, lo colonizzò con una legificazione
cingolata e ne fece la base operativa del regime.

Le regole del lavoro, ecco il messaggio che i perdenti volevano trasmettere,
possono assediare i valori del sistema capitalistico e contestarne il primato;
ma i loro interpreti non possono negarne la natura compromissoria se non
cambiando mestiere, ossia rovesciando il tavolo intorno al quale le parti si
siedono senza alcun proposito di trattare la propria estinzione e, casomai,
con l’intento di ottenere reciproci vantaggi.
Come sa chi ha la pazienza di rileggere i dialoghi delle origini, è stato più
facile fraintendere il messaggio che intenderlo correttamente. In effetti, il
rumore delle voci del tempo era come l’accordatura dell’orchestra prima
che abbia inizio il concerto: i temi dello spartito ci sono già, quasi tutti, ma
si inseguono, si incontrano e si scontrano confusamente, secondo il
capriccio degli musicanti; per questo, pochi sono in grado di individuarvi
profetiche anticipazioni. Ad ogni modo, è sicuro che non ci riuscì la larga
maggioranza dei giuristi dell’epoca, intimiditi e forse spaventati dalla
virulenza del fenomeno sindacale e dalla voglia di spaccare il mondo urlata
da un gran numero dei suoi protagonisti – così somiglianti ai sensali dei
“mercati di bestiame”: “uomini tarchiati e violenti, con facce rudi, randelli
e bestemmie”, raccontava un testimone d’eccezione come il talentoso
Francesco Carnelutti col tono di chi disapprova perché pensava con sicuro
istinto classista: “mio Dio, come siamo caduti in basso”.
Non è casuale che i gius-pubblicisti abbiano preceduto gli altri giuristi nel
comprendere che la latitudine del fenomeno non permetteva di
fronteggiarlo se non con una strategia di politica del diritto più articolata di
quella legata alla tradizione ottocentesca dello Stato liberale. Essendo i
massimi esponenti della cultura del monismo giuridico e del positivismo
legislativo, furono anche i primi a scorgerne le crepe provocate dalla crisi
che l’aveva colpita in seguito all’erompere di movimenti spontanei della
società civile che ne contestavano un ordine carente, avrebbe detto Max
Weber, non tanto di legalità quanto piuttosto di legittimità.
“A chi è debole di gambe” – scriveva nel 1911 lo stesso Carnelutti, di cui si
diceva: ”non è processualista né privatista né commercialista, è tutto” – “si
offre un bastone e nello stesso tempo si cerca di curarlo perché riacquisti la
forza e possa fare a meno del bastone”. A distanza di soli tre lustri, però,
apparirà chiaro a chiunque che il bastone nel frattempo offerto dallo Stato
ai figli di un gracile pluralismo sociale serviva non tanto per ripristinare
l’uso dei loro arti inferiori quanto piuttosto per spezzarli. Per questo, se è
incontestabile che fino al Novecento inoltrato il territorio delle relazioni
sindacali e di lavoro sia stato l’hic sunt leones degli ordinamenti giuridici
dell’Europa continentale – ad eccezione di quello, tragicamente caduco,
della Repubblica di Weimar – dopo il crollo dell’edificio normativo che i
corporativismi nazionali dei decenni centrali del secolo ci avevano
costruito sopra si reputerà di poter asseverare con eguale perentorietà: hic
sunt ruinae. Ma non era vero. Perlomeno, non del tutto, perché si è iniziato
presto a rovistare tra le macerie ed a selezionarne i pezzi più pregiati con
l’intento di riutilizzarli; grosso modo come facevano i conquistadores del
Nuovo Mondo, che riedificavano le città rase al suolo con i materiali delle
demolizioni.

La verità è che nessuna epoca, anche se successiva ad una rivoluzione,
comincia dall’anno-zero; che il più chiacchierato padre putativo del diritto
del lavoro made in Europa è stato il corporativismo nelle sue numerose
varianti, incluse quelle più reazionarie, come in tutte le sue colorite o
scolorite venature – dal proto-socialismo al cattolicesimo sociale – e che
esso si affermò tra il secondo e il quarto decennio del Novecento per
affrontare i processi sociali, economici e politici con la maturazione dei
quali i sistemi normativi più progrediti non hanno ancora terminato di
confrontarsi.

Come dire che è tempo buttato incartarsi in dispute su chi abbia il merito
del ruolo salvifico svolto dal diritto del lavoro che conosciamo. Alla fine
dei conti, “qualunque sia la concezione del mondo – liberale, cattolica,
socialista e, sì, anche fascista – a cui abbiano di volta in volta aderito, i
legislatori europei si sono sempre proposti di modificare la condizione
dell’uomo che vende la sua forza lavoro”, obbedendo così “a una tensione
riformatrice comunque motivata”.
Perciò, col disincanto dell’idealista senza illusioni, potremmo convenire
che, se il diritto del lavoro ha un’anima, ciò dipende dal fatto che esso
“nasce dalla critica di un rapporto diseguale e generatore di grandi conflitti
nel cuore del sistema capitalistico”; una critica, però, così poco radicale da
proporsi, piuttosto, di impedire la radicalizzazione dei conflitti; una critica,
cioè, ove la pars construens prevale sulla destruens, prefigurando un
modello di tutela basato sulla distinzione tra ciò che può stare nel mercato e
ciò che deve starne fuori.

Ecco perché, se il diritto del lavoro che conosciamo dovesse scomparire sul
serio, faremmo bene non solo a dargli un’onorevole sepoltura. Sarebbe
anche carino trasmettere un piccolo segnale della nostra gratitudine. Come
fanno i pescatori dei più sperduti villaggi norvegesi, i cui cimiteri – dicono
– sono pieni di lapidi che recano, tutte, accanto al nome del defunto la
medesima iscrizione: “Grazie di tutto”.
2. Un flusso normativo a densità e geometria variabili.
Mentre mi preparavo ad affrontare il tema del nostro incontro,
all’improvviso mi è frullata in testa un’ipotesi solamente in apparenza
eccentrica. In realtà, un nesso c’è. Per questo, la riporto.
L’ipotesi è che, se un giorno Antonio Machado ha scritto “caminante, no
hay camino, el camino se hace al andar”, ciò accadde non soltanto perché
sapeva giocare magistralmente con le parole, ma anche perché conosceva
un’opinione di Novalis e ne subiva il fascino. Secondo il celebre pensatore
tedesco, “non si va mai tanto lontano come quando non si sa dove si va”.
Dopotutto, ogni tanto, filosofi e letterati vanno d’accordo. Stavolta, però,
tocca ai giuristi esprimere qualche perplessità.
Come giustamente sostiene uno di loro, “il diritto ha bisogno del ‘dove’.
(…) Di un ‘dove’ preciso e determinato”. Per contro, nell’Europa dei 15 –
che si è già deciso di allargare a 25, per adesso – e, in maniera ancora più
vistosa, nello spazio virtualmente illimitato degli scambi economici, il
diritto si affranca dai luoghi originari e recide i suoi ancestrali legami con
la terra.
Tuttavia, la propensione a proiettarsi in spazi più grandi delle nazioni
faceva già parte del corredo genetico del diritto del lavoro. Vi stava iscritta
fin dagli inizi, ma era nascosta. Infatti, non venne individuata con
l’immediatezza che oggi ci sembra tanto naturale e spontanea. Si è dovuto
invece aspettare che la grande industria si aprisse al “mercato mondiale”,
come segnalavano Karl Marx e Friedrich Engels nel 1848, per soddisfare il
“bisogno di sfoghi sempre maggiori ai suoi prodotti”. Per questo, e sia pure
non solo per questo, la civiltà che su di essa si andava modellando imparò
piano piano ad apprezzare dichiarazioni solenni sull’universalità dei diritti
umani i più elementari dei quali erano già riconosciuti – quando si dice il
caso – dai principali istituti del corpus di regole che dal lavoro prendeva
nome e, almeno in parte, anche ragione.
Questi istituti protettivi avevano “un ‘dove’ preciso e determinato”. La
grande industria, anzitutto. E lo Stato-nazione”, ossia “quello Stato che
regola interamente nel suo territorio sia i fenomeni politici che quelli
economici”; uno Stato che, “nel concreto divenire storico del diritto del
lavoro, è stato determinante” – come scrisse Massimo D’Antona – perché
aspirava “a regolare il conflitto sociale entro i propri confini nella misura
necessaria a preservare i meccanismi di accumulazione capitalistica e nello
stesso tempo a mantenere l’ordine sociale e le basi di legittimazione
democratica dello Stato”.

Ciononostante, a un certo punto, il nucleo essenziale dei principi di
protezione sociale ricavabili da normative che prescrivevano le modalità
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dell’implicazione della persona dell’obbligato a lavorare subordinatamente
nell’adempimento dell’obbligazione – un’implicazione intensa al punto di
mettere a repentaglio la stessa incolumità del debitore – varcò i limiti
territoriali delle zone d’origine. Superate le forti ostilità iniziali, da allora
ha fatto il giro del mondo con un passaporto che ne certifica l’appartenenza
all’eco-sistema etico-giuridico dell’umanità.
Come dire che il processo di denazionalizzazione del diritto del lavoro è
incominciato assai prima che si profilasse il tramonto della centralità dello
Stato-nazione.
Per questo, l’ottica in cui si suole inquadrare il rapporto tra il diritto del
lavoro che conosciamo e la globalizzazione a me pare distorsiva. E’ l’ottica
che, per enfatizzare il pathos che fa del diritto del lavoro la creatura più
coccolata dall’immaginario collettivo dei deboli, demonizza la
globalizzazione, come se ciò di cui il diritto del lavoro ha maggiormente
bisogno fosse guadagnarsi l’attrattiva dell’epicità che il Bene si guadagna
lottando contro il Male. Viceversa, un’ottica del genere acquista in
teatralità magico-religiosa e miracolistica ciò che perde in laicità. Infatti,
trascura che mai il diritto del lavoro avrebbe potuto realizzare da solo la
precoce vocazione ad universalizzare i propri valori costitutivi. Come
notavo poc’anzi, essa è rimasta inespressa finché la modernizzazione
industriale non ha sospinto il capitalismo a manifestare una crescente
intolleranza alla limitatezza dei territori degli Stati nei quali aveva
prosperato e si era consolidato. D’altra parte, la tendenza dei processi
regolativi a rompere la connessione con l’ambito della territorialità statale
non poteva certo avere motivazioni endogene alla sfera giuridica,
segnatamente nella lunga stagione in cui il diritto è stato un prodotto
esclusivo dello Stato-nazione. La tendenza perciò era quel che
sostanzialmente è tuttora: la risposta politica ad un agire economico di cui
il territorio statale non è più la misura perché i processi di produzione della
ricchezza si spostano ovunque si offrono mercato e profitto. Una risposta
che, al di là delle intenzioni, è una forma di protezionismo indiretto delle
economie più evolute.
Infatti, la deterritorializzazione del suo nocciolo duro di prescrizioni
protettive, per quanto striminzite, ha permesso al diritto del lavoro di
spartire col principio della libera concorrenza l’imprinting regolativo del
mercato mondiale.
Può darsi che, per questo tramite, la lealtà della concorrenza si tinga di
umanitarismo da enciclica papale. L’impressione, anzi, non è infondata. Ma
è inconciliabile con gli effetti della liberalizzazione del commercio e della
mobilità internazionale dei processi di produzione della ricchezza, nella
misura in cui è documentabile come la mondializzazione delle idee-forza e
dei principi-base del diritto del lavoro segua un tragitto predeterminato dai
preminenti interessi dei paesi più sviluppati a precludere – soprattutto ai
paesi in via di sviluppo, ma anche a se medesimi – il ricorso a pratiche di
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dumping sociale. E’ l’interesse a diminuire l’attrazione dei maggiori
guadagni che porta le imprese a trasferire l’attività nei paesi dove gli
standard sociali sono più bassi; è l’interesse a ridurre e, nel lungo periodo,
annullare il vantaggio competitivo dei paesi emergenti; è l’interesse non
tanto a moderare la concorrenza a livello planetario in omaggio ad
imperativi moraleggianti quanto piuttosto a disinnescarne la carica
distruttiva nella misura occorrente per impedire che il duello si concluda
con sconfitti che cadono ai piedi di vincitori moribondi.
Come dire, insomma, che l’universalizzazione dei diritti fondamentali
dell’uomo o della donna che lavora ha acquistato ulteriori valenze che ne
completano la definitiva secolarizzazione.
Infatti, per il diritto del lavoro la globalizzazione è un’apocalisse in senso
etimologicamente proprio: in greco, apocalisse significa rivelazione di cose
nascoste. Mi sono persuaso che si possa definire così l’impatto della
globalizzazione sul diritto del lavoro, perché essa ne ha dissequestrato la
storicità, quantunque le ideologie (non solo) di sinistra ne prediligano
tuttora l’accezione che ne fa un avamposto della giuridificazione di istanze
sociali.
La verità è che il diritto del lavoro è nato da una costola di diritti a
contenuto esclusivamente economico – il diritto all’iniziativa economica, il
diritto ad una leale concorrenza – riconducibili alla logica del mercato. Per
questo, non è motivo di scalpore né di scandalo il principio di realtà che
enuncia l’indispensabilità del diritto del lavoro allo sviluppo dell’economia
– e sia pure non in funzione ancillare, subalterna, strumentale, bensì allo
scopo di sanare o correggere le contraddizioni del capitalismo nel suo
stesso interesse.
E’ all’interno delle coordinate appena descritte che vanno condotte indagini
per accertare se la globalizzazione si è sviluppata in uno spazio vuoto di
diritto – come l’Iraq del dopo-Saddam: il paese più libero del mondo e, al
tempo stesso, il più pericoloso, perché la libertà senza ordine e disciplina è
caos – o se, al contrario, è alla ricerca di un ordine normativo.
Nessuno, dico subito, potrà rappresentarsi e descrivere la situazione con la
gioiosa e candida meraviglia che nei migliori dei nostri antenati, come
ricordavo in apertura, destava l’osservazione degli incerti e tortuosi
processi formativi delle prime regole del lavoro. Qui ed ora, infatti, non c’è
bisogno di rabdomanti e dei loro rituali per divinare l’esistenza di falde
acquifere: qui ed ora, casomai, ci sarebbe bisogno di ingegneri e geologi
specializzati in idraulica fluviale per imbrigliare e convogliare una quantità
imprecisata di corsi d’acqua che provengono disordinatamente da ogni
parte e vanno in ogni direzione.
Tralasciamo pure prassi e consuetudini del commercio e della finanza
internazionali. Che sono incalcolabili. Come, peraltro, gli atti di varia
natura emessi da un vasto agglomerato di organizzazioni inter- e sovranazionali
per lo più di derivazione strettamente statale, nei cui apparati si

affollano non meno di 400.000 dipendenti. Gli atti adottati dall’Unione
Europea, per esempio, riempiono nel complesso 80.000 pagine a stampa:
1.500 sono quelli emanati nel solo 2000. Se a ciò si aggiungono le norme
pattizie di cui è pressoché impossibile fornire una stima attendibile – i
trattati registrati presso il Segretariato generale dell’Onu ammontano a
50.000 – si avrà un primo flash che illumina una situazione frammentata e
dai contorni sfumati, caratterizzata da un incessante flusso normativo una
ramificazione del quale attiene alla regolazione del lavoro dipendente e
dintorni.
Non mi sembra che sia stato prima d’ora attribuito un rilievo adeguato al
fatto che la regolazione transnazionale del lavoro – già notevolmente estesa
e in grado di auto-alimentarsi sotto l’egida e per impulso di una
costellazione di organismi internazionali che vede l’Oil nella posizione
privilegiata della stella polare – è omologabile alla regolazione dei
primordi in ragione della comune accentuazione dei profili della pre- ed
extra-statualità. Ancora una volta, quindi, la cultura positivistico-legalistica
prevalente nei paesi di civil law viene apertamente sfidata e gli operatori
giuridici sono, ancora una volta, sollecitati ad impiegare metodologie
interpretative e categorie generali rispettose dell’autenticità del materiale
che trattano.
Come dire che, da questo punto di vista, il diritto globale assume
inaspettatamente cadenze e movenze espressive che sembrano una replica
della fase aurorale del diritto del lavoro e finiscono per valorizzare l’eretica
intuizione che sta alla base dell’ insegnamento di Hugo Sinzheimer: “chi
cercasse il diritto del lavoro soltanto nelle leggi non troverebbe nulla”.
L’insegnamento – se è familiare ai giuristi dei paesi di common law, che
non a torto ne vedono un corollario nell’aforisma di un grande giudice
statunitense: “la vita del diritto non si nutre di logica, ma di esperienza” –
non incontra invece un reale seguito tra giuristi appartenenti a paesi che
hanno conosciuto l’esperienza delle codificazioni di stile imperiale.
Nemmeno in Italia, benché abbia avuto un continuatore autorevole come
Gino Giugni.
Proprio in Italia, infatti, ne è stata di recente dimostrata l’imperfetta
metabolizzazione, nella misura in cui l’art. 18 st. lav. ha potuto
spadroneggiare nelle cronache giornalistiche del paese per un anno e
mezzo. Viceversa, se si prestasse la dovuta attenzione all’esperienza
applicativa della tutela c.d. reale contro il licenziamento illegittimo, la
norma statutaria non riuscirebbe a radunare le opposte tifoserie che ha. Chi
la idoleggia si renderebbe conto che l’esecuzione dell’ordine giudiziale di
reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato o è concordemente voluta
sia dall’attore vittorioso in giudizio che dal convenuto o non è; mentre chi
le è accanitamente contrario dovrebbe piuttosto arrabbiarsi per
l’inefficienza di un’amministrazione della giustizia che, avendo la
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speditezza di una lumaca, fa durare oltre il tollerabile i processi, inclusi
quelli promossi mediante l’impugnazione dei licenziamenti individuali.
Orbene, equivoci di questa natura sono destinati a moltiplicarsi ed
aggravarsi nel corso del XXI secolo, perché la chiave di lettura
strutturalmente più congeniale al diritto del lavoro sarà sempre più arduo
infilarla nella toppa della sua serratura a causa della spazialità del diritto,
ossia di un predicato che sommergerà gli interpreti – come sta già
succedendo – con una montagna di interrogativi riguardanti il “come e
perché” della normativa sulla cui applicazione o disapplicazione sono
tenuti a pronunciarsi. Una montagna che, come quella della facezia,
partorirà spesso topolini.
Ne costituisce un indizio il recupero dei canoni del formalismo giuridico ad
opera di numerosi specialisti della giuridificazione globale.
Se non esprime – come è plausibile ritenere – un convinto consenso ad un
metodo screditato dalla decontestualizzazione che infligge alla norma da
interpretare, la riabilitazione è manifestazione – non so quanto consapevole
– dell’inadeguatezza degli interpreti a colmare un deficit di conoscenze che
si dilata a vista d’occhio. Il neo-formalismo giuridico, insomma, è una
scelta di comodo perché permette di occultare la sproporzione tra la vastità
dei campi d’indagine che un diritto denazionalizzato spalanca e l’orizzonte
conoscitivo del ceto professionale che se ne occupa. E’ quindi paradossale
che – nello stesso momento in cui l’evoluzione degli ordinamenti richiede
non meno, ma più sapere empirico – le preferenze metodologiche riportino
gli operatori giuridici ai tempi dei pandettisti tardo-ottocenteschi che
implementavano con operazioni concettuali falsamente avalutative il
paradigma disciplinare a cui erano stati educati.
In queste condizioni, conta meno di quanto non si creda proclamare
assoluta fedeltà ad una concezione del diritto del lavoro che ne riconosce il
compito di “separare il mercato del lavoro dal mercato delle merci e
organizzarvi una disciplina dello scambio che armonizzi le esigenze di
efficienza e di competitività delle imprese con i valori personali di cui è
portatore il fattore lavoro”. Non è in discussione la genuinità dell’adesione.
E’ in discussione l’inossidabilità dello statuto epistemologico, perché
qualcosa di importante è cambiato nell’habitat normativo.
E’ cambiato il volto della legalità. E’ cambiata la dislocazione delle sedi in
cui essa si forma e sono cambiati i soggetti che le frequentano. Così,“il
diritto vivente che regola non solo le macro-operazioni economiche, ma
anche le micro-transazioni di massa su beni di consumo s’identifica in
misura crescente nei corpi di regole elaborate dalle stesse imprese che di
quelle operazioni e transazioni sono le protagoniste e trasferite in clausole
contrattuali i cui testi sono predisposti dai legali che le assistono”. Ma
questa non è che una delle schegge apparentemente impazzite che orbitano
nello spazio giuridico globale: un frammento della galassia a densità e
geometria variabili a cui dà origine l’attività di autodeterminazione
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normativa svolta fonti regolative che si dispongono più in orizzontale che
in verticale, in modo da collocarsi su di un piano tendenzialmente equiordinato
anziché sui livelli gerarchici che caratterizzano il tradizionale
sistema stato-centrico della legalità. La stessa attitudine a regolare non
corrisponde più ad una nozione univoca di autorità normativa, perché la
vincolatività delle regole è graduata lungo un continuum che scivola – dal
precetto obbligatorio, ma generico e programmatico – alle clausole sociali
disseminate nei trattati multi-laterali del commercio internazionale per
penalizzare i paesi esportatori inadempienti, giù giù fino a stemperarsi
nell’inafferrabile genus del diritto “persuasivo”, nelle linee-guida deliberate
da enti inter- e sovra-nazionali, nei codici di condotta anche unilaterali di o
per gruppi di agenti del mercato mondiale come le multinazionali,
nell’indicazione dei criteri interpretativi e delle metodologie utilizzabili per
la risoluzione di controversie devolute a giurisdizioni transnazionali
pubbliche o private di matrice giudiziaria o arbitrale.
L’indeterminatezza di uno scenario normativo che si sviluppa con la
vitalità della vegetazione tropicale – e dunque con le caratteristiche della
casualità e dell’imprevedibilità per eccesso di esuberanza – non solo
aumenta la responsabilità dell’interprete che intenda imparare la
grammatica e la sintassi della giuridificazione globale per ricostruirla in
forme sistemiche. Modifica anche il modello antropologico-culturale dei
professionisti del diritto, perché i gruppi economici che competono sul
mercato mondiale richiedono prestazioni in cui “c’è un po’ di tutto: un po’
di capacità creative quanto a law-making, un po’ di consigli finanziari, un
po’ di capacità di lobbying”. Per questo, l’operatore giuridico smanioso di
entrare nell’opulento mercato del sapere giuridico transnazionale è tentato
ad indossare i panni dei divulgatori di expertises prefabbricate e dei
venditori di technicalities. In questa maniera, però, è la stessa missione
assiologica del diritto del lavoro a subire gli effetti più rovinosi. Essa
rischia di sbiadire fino a svuotarsi, perché non può essere portata a
compimento senza un’interpretazione agguerrita quanto basta per proporre
opzioni valutative miranti, sulla base di argomentazioni orientate alle
conseguenze, al ragionevole bilanciamento dei valori umani protetti dal
diritto del lavoro con altri valori.
Per questo, il processo d’integrazione normativa della globalizzazione
dell’economia nella sua dimensione sociale denuncia tutti i limiti che
derivano sia dalla latitanza del medesimo pensiero giuridico auto-riflessivo
e critico-propositivo del cui apporto i diritti europei del lavoro hanno
potuto alla fine giovarsi per diventare maggiorenni sia, a fortiori, degli
Stati-nazione, non solo perché sono i soli soggetti dotati del monopolio
legale del potere necessario per rendere vincolanti le scelte che compiono,
ma anche perché i governati hanno in qualche modo la possibilità di
chiamare prima o poi i governanti a rispondere delle decisioni che
prendono.
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Infatti, l’ordinamento giuridico globale, non diversamente – come dirò –
dall’ordinamento comunitario, si legittima a mezzo del diritto, piuttosto che
col consenso; un diritto, però, sulla cui effettività spetta fondamentalmente
agli Stati-nazione vigilare, promuovendone le condizioni e reprimendo le
trasgressioni, perché negli esecutivi nazionali si cumulano le prerogative
che non c’è sovrano disposto a cedere. Il che non sta dimostrare che
l’interventismo statale sia la pre-condizione del diritto del lavoro.
Quest’ultimo, anzi, è un fenomeno non tanto statale quanto piuttosto
nazional-popolare, la cui cifra stilistica è quella del bricolage collettivo,
perché il suo più lodato know-how appartiene a generazioni di sconosciuti o
dimenticati operatori ed a masse anonime di comuni mortali. Appartiene ad
isolati giudici di provincia. Ai rappresentanti sindacali che conducono le
trattative contrattuali. Alle folle che sfilano in chiassosi cortei e riempiono
le piazze per protesta. E’ per questo che il diritto del lavoro non si disfa
nemmeno delle sue connotazioni risalenti ad epoche remote senza il più
largo consenso: il fatto è che i suoi utenti se ne considerano anche gli
autori.
Tutto vero. Però, resta che neanche in Gran Bretagna – dove l’abstention of
the law è stata addirittura oggetto di culto un po’ per devozione e un po’
per superstizione – il diritto del lavoro può fare a meno dello Stato. Come
la globalizzazione, peraltro; la quale, secondo gli stereotipi della più
frettolosa e superficiale pubblicistica, “dovrebbe accompagnarsi con una
riduzione del fenomeno statale, ed invece procede parallelamente ad un suo
aumento, almeno quantitativo. In Europa vi erano, dopo la prima guerra
mondiale, 23 Stati. Oggi ve ne sono 50. La proliferazione statale è
crescente: dal 1900 alla metà del secolo sono sorti più di uno Stato per
anno; da allora al 1990, più di due; negli anni ’90, più di tre per anno”.
Ancora più impressionante è il ritmo di crescita delle organizzazioni
generali e settoriali che costituiscono lo strumento istituzionale di
partecipazione degli Stati al governo del sistema mondiale. Una
partecipazione tutt’altro che secondaria; e ciò perché gli Stati agiscono per
lo più come organi indiretti dei poteri normativi sovrastatali o
internazionali.
Fatto sta che nell’arco di appena novant’anni le predette organizzazioni
sono passate dalle 37 che erano all’inizio del secolo alle attuali 1850.
3. Chi ha paura della globalizzazione?
A questo punto, si capisce meglio perché l’incipit della lezione non era
un’oziosa divagazione. Voleva soltanto esprimere lo stato d’animo che
deprime uno della mia età quando vede che il mondo del giorno d’oggi è
continuamente riscoperto da navigatori che salpano verso l’ignoto con
malridotte caravelle senza avere le qualità di Cristoforo Colombo. La
succinta rievocazione di “come eravamo” si proponeva infatti di disegnare
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la cornice di un discorso giuridico sull’impatto presuntivamente devastante
della globalizzazione che sottragga il parlante al rischio di affondare in un
banco di nebbia, perché ha perduto di vista che il diritto del lavoro non è un
dato ontologico, autoreferenziale e autoconcluso. Tutt’al contrario, siccome
esso è inseparabile dal suo ambiente, sia nel senso che lo condiziona sia nel
senso che ne è condizionato, è un costrutto storico. E’ “un modelo para
armar” – secondo la fortunata definizione di Antonio Baylos – così poco
ingessato da poter essere smontato e rimontato in forme che non smettono
di stupire, ma sono difficili da classificare.
Per questo, il ruolo storico dei diritti nazionali del lavoro nei sistemi
capitalistici dell’Europa testimonia che il dibattito sulla globalizzazione
dell’economia e del mercato è inquinato da una quantità di luoghi comuni
predestinati, come tali, a durare per chissà quanto tempo. Uno dei più
floridi è quello secondo cui gli spiriti animaleschi evocati dalla
competizione economica senza frontiere e dalla libera circolazione delle
merci sono gli imbattibili nemici dell’universalizzazione delle regole che
inciviliscono la gestione del lavoro.
Viceversa, si tratta di una falsificazione ideologica.
Infatti, allargando la forbice tra paesi ricchi e poveri, come tra ricchi e
poveri nei singoli paesi, la globalizzazione ripropone su scala planetaria
l’esigenza che, nelle nazioni dell’Occidente europeo, tra l’Otto e il
Novecento generò la politica del diritto di cui oggi si predice l’esaurimento.
E’ l’esigenza di smettere di governare la povertà con la pietà e la forca,
come si faceva in età pre-industriale. E’ l’esigenza di governarla
coerentemente con un progetto di sviluppo basato sulla condivisione di
politiche pubbliche di ridistribuzione della ricchezza prodotta.
La medesima esigenza diventa ora tanto più pressante quanto più i
progressi tecnologici della comunicazione di massa hanno rimpicciolito il
mondo, rendendo visibili “in diretta” le prodezze di una globalizzazione
sgovernata che accentua drammaticamente squilibri e asimmetrie. Perciò,
la diffusione planetaria “in tempo reale” di immagini e notizie che
provocano sussulti di sdegno e disgusto finirà per generalizzare la
sensazione che l’alternativa è secca. O il “sogno di un mondo senza
povertà” – a cui anche i vertici della Banca mondiale ostentano l’intenzione
di aderire per giustificare il potere che detengono – in qualche modo e
misura si avvera oppure la stabilità mondiale diventerà un sogno proibito e
regnerà il disordine. Un disordine che comprometterà anche il
funzionamento dell’economia e del mercato globali. Come, cent’anni fa,
avrebbe compromesso quello delle economie e dei mercati nazionali.
E’ una banalità osservare che governare la povertà per uscirne è un compito
di crescente complessità. Impossibile però possono giudicarlo solamente
quanti frequentano il futuro di un diritto che cambia senza averne
frequentato il passato. Diversamente, saprebbero che la storia non ha
bisogno di tecniche particolarmente sofisticate, né di attori cooptati
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nell’establishment, per portare a compimento i suoi disegni. Dopotutto,
quel grandioso processo di emancipazione, da sudditi a cittadini, degli
uomini col colletto blu e le mani callose che è culminato nella formazione
dello Stato democratico pluri-classe ha decollato con strumenti forgiati da
una prassi primitiva. Nato nel segno dell’informalità ai margini dei codici
borghesi, il diritto operaio dei primordi è infatti cresciuto nel segno della
microdiscontinuità – senza peraltro trattenersi dal puntare su obiettivi più
ambiziosi di quanto non sia quello di regolare un rapporto contrattuale – e,
contrariamente a ciò che pensano in molti, gli itinerari che ha percorso per
salire sul crinale delle costituzioni dell’età post-liberale sono stati tracciati
con l’estemporaneità, la spericolatezza e l’approssimazione dei virtuosi del
fuori-strada.
Per questo, la memoria storica del lusinghiero successo che ha premiato il
riformismo giuridico-politico del Novecento con l’ascesa dei diritti
nazionali del lavoro costituisce un commovente quanto affidabile viatico
per il secolo a cui tocca riorganizzare e riorientare i processi economici e
politici in atto verso una globalizzazione “dal volto umano” – come un
premio Nobel per l’economia, Joseph Stiglitz, ritiene possibile. Un viatico
che dobbiamo prendere sul serio anzitutto noi del Nord del mondo – e chi
sennò? – che, la mattina, compriamo per i nostri figli merendine dolcificate
con zucchero coltivato da gente che non può nutrirsi come si deve o, la
sera, posiamo la testa su cuscini di lattice stillato da campesinos latinoamericani
che passano la notte dormendo sulle pietre o, la domenica,
vediamo negli stadi prendere a calci un pallone di cuoio rifinito da bambini
asiatici che non andranno mai a scuola. Non possiamo non prenderlo sul
serio, dicevo, se vogliamo sentirci un po’ meno consumatori-utenti passivi
e un po’ più partecipi di una civile comunità transnazionale; ed insieme per
far sentire gli altri un po’ meno globalizzati.
Il fatto che le cose si siano complicate dipende da un’infinità di fattori il
minore dei quali non è la dispersione geo-politica delle fonti di produzione
di regole che, sommandosi alla loro diversificazione tipologica, rende assai
problematico il controllo dei circuiti decisionali e ostacola la stessa
conoscibilità dei loro esiti. Perciò, nemmeno un’opinione pubblica
internazionale che – in nome, se non dell’eguaglianza dei popoli e degli
individui, perlomeno dell’equità – ha maturato una meritoria sensibilità
sociale può svolgere una funzione più incisiva di quella di allertare,
canalizzare il dissenso, esprimere un malessere diffuso soprattutto tra le
giovani generazioni. Neanche le più imponenti manifestazioni no-global in
bilico tra folklore e turbolenza sociale sono sufficienti ad assicurare
continuità all’azione politica. Anzi, è proprio la loro inevitabile saltuarietà
che, acutizzando il bisogno di interlocutori più trasparenti e meno
inaccessibili per i comuni mortali di quanto non possano essere le 1850
istituzioni di cui dicevo, fa apparire seducente l’improbabile prospettiva di
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costituire un’autorità superiore, sovra- e ultra-statale, stabilmente
legittimata a produrre e garantire un ordine normativo globale.
Non che la prospettiva sia un auto-inganno. Casomai, è un’utopia; come la
intende Claudio Magris, secondo il quale “utopia significa non arrendersi
alle cose così come sono e lottare per le cose così come dovrebbero
essere”.
Infatti, può esserne considerata una realizzazione in itinere l’Unione
Europea dei nostri giorni, sia pure limitatamente al gruppo dei paesi
fondatori con culture omogenee nel loro pluralismo liberal-democratico e
Stati-nazione che un progetto comune di società solidale lo hanno avuto e,
dopo averlo separatamente attuato nella forma dello Stato sociale, nell’età
della globalizzazione non potranno aggiornarlo se non avvalendosi delle
sinergie di una governance consensuale della loro interdipendenza.
Tuttavia, la cessione di quote di sovranità statale ad una istituzione la cui
legittimazione democratica è più derivata che originaria non può
comportare l’immunità dei governi che rappresentano gli Stati membri
dalla responsabilità politica nelle forme previste dalle rispettive
democrazie. Anzi, con un Parlamento europeo marginalizzato e nella
persistente mancanza di più efficaci strumenti d’intervento diretto sulle
istanze tecnocratiche e burocratiche in cui si articola un modello
organizzativo di cooperazione tra governi, l’ancoraggio del sistema
comunitario agli Stati aderenti mantiene aperti i canali di controllo
democratico sul potere dei decisori sovra-nazionali. Come dire che gli
europei dispongono dei meccanismi delle democrazie nazionali per
garantirsi contro i rischi di una regolazione sciolta dalla fisicità dei luoghi
nei quali vivono i popoli con le loro abitudini e le loro aspettative.
Il rischio maggiore è quello di vedersi impartire dall’alto, e dunque di
dover subire, regole d’insostenibile leggerezza, direbbe Milan Kundera,
perché i loro autori si sono sottratti alle suggestioni coercitive del grande
simbolo storico che è diventato l’angolo di mondo che si chiama Europa.
Suggestioni che, pur avendoci provato, non mi riesce di sunteggiare con
parole più appropriate di quelle di Federico Mancini: “se l’Europa non
dovesse crescere come organismo democratico quel che resterebbe da
organizzare non sarebbe più l’Europa”. Sarebbe l’Europa dei mercanti,
anziché dei cittadini.
“Ciò che mi turba”, disse una volta l’influente giudice italiano della Corte
di giustizia di Lussemburgo, “è l’aggravarsi del male che la Comunità si
trascina dalla nascita e che nella nascita della Comunità ha le sue radici.
Tra le istituzioni di Bruxelles ve ne è una, il Consiglio, a cui il Trattato di
Amsterdam ha conferito poteri ancora più vasti di quanto già avesse. E il
Consiglio non è un’assemblea democratica. E’ una tavola rotonda
diplomatica che legifera a porte chiuse, limitandosi nel 70-80% dei casi ad
apporre il suo timbro su testi preparati da un collegio di ambasciatori e da
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comitati di esperti nazionali di cui nessuno è riuscito a calcolare i numero e
di cui pochi conoscono i volti”.
A Mancini, mancato ai vivi alcuni anni or sono, avrebbero perciò fatto
piacere le parole di un premier francese. “Il existe”, lo avrebbe rassicurato
Lionel Jospin con un’enfasi all’altezza della tradizione oratoria dei
connazionali, “un ‘art de vivre’ à l’européenne, une façon propre d’agir,
d’aménager le temps, de penser et d’organiser les relations de travail. La
justification de l’Europe, c’est sa différence”. La sua salvaguardia quindi è
la sola opzione capace di arrestare il decorso di una globalizzazione che
minaccia di chiudere, “imponendo una sorta di imperialismo guidato dalle
forze economiche, quel capitolo di storia europea contrassegnato dalla
centralità degli Stati”.
In effetti, i governi degli Stati membri si esporrebbero al pericolo di una
secca perdita di consensi elettorali sdoganando regole che gli organismi
comunitari hanno svincolato dalla “morsa” del diritto domestico in vista
della loro trasposizione negli ordinamenti interni, qualora il rimosso non
fosse altro che l’insieme del valori coesivi e solidaristici che
caratterizzavano i diritti nazionali del lavoro anteriormente all’avvento
della prima Comunità economica europea. Non a caso gli Stati membri che
hanno la leadership in Europa hanno sempre interpretato l’armonizzazione
dei diritti nazionali del lavoro con la pretesa di vedere esteso il proprio
all’intera Unione. In fondo, il principio di sussidiarietà è stato sancito nei
Trattati istitutivi proprio per negare un’autonoma competenza regolativa
dell’Unione e ne è stata concordemente cercata un’alternativa proprio
perché non bastava ad impedire che l’armonizzazione mediante gli
strumenti dell’hard law (regolamenti e direttive) aprisse più problemi di
quanti non potesse risolverne.
Dopo il Trattato di Amsterdam, infatti, prevale una strategia di politica del
diritto del lavoro che privilegia tecniche d’intervento più leggere e
flessibili. Come dire che le insuperate difficoltà ad accordarsi su un sistema
normativo uniforme hanno consigliato un approccio di governance by
objectives, permettendo così al soft law di dominare la scena comunitaria
con la stessa pervasività che si è soliti segnalare là dove esso è di casa,
ossia nello spazio giuridico globale.
Soft law è un’espressione linguistica di successo; e quando una parola ha
fortuna in genere se la merita. Di sicuro, come tutte le formule verbali
abbreviate, fa risparmiare tempo. Significa che le parti interessate non
hanno maturato un livello di consenso sulle nuove regole sufficiente ad
escludere il rischio della loro disapplicazione. Significa che l’obiettivo
specifico non è ancora chiaramente definito. Significa che il fine
desiderabile non è l’uniformità regolativa, bensì la convergenza su
soluzioni condivisibili e purtuttavia raggiungibili con tecniche differenti.
D’altra parte, “nonostante quasi cinquant’anni di direttive e decisioni
adottate a livello europeo”, è la giudiziosa conclusione a cui arriva Pierre
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Legrand, “qualunque discorso sulla convergenza giuridica europea è
prematuro”. Oltretutto, l’Europa è la millenaria dimora di due tradizioni
culturali simboleggiate dal common e dal civil law e il nuovo ordine
normativo europeo non potrà formarsi se non individuando referenti
situabili oltre, ma non contro ciascuna di esse, creando cioè i presupposti
che consentano ad entrambe di riconoscervisi. Anche per questo, la
metafora di una egemonia centripeta dell’Unione che presuppone la
decapitazione delle distinte identità nazionali è bugiarda quanto quella che
ne celebra l’apologia. La convergenza dei diversi, infatti, si realizzerà il
giorno in cui i giuristi inglesi, che si sono formati in un sistema di diritto
giudiziario, penseranno di più come gli italiani, che si sono formati in un
sistema codificato, e quelli spagnoli o francesi penseranno di più come gli
irlandesi.
I più recenti sviluppi delle politiche comunitarie, dunque, fanno apparire
anacronistiche le apprensioni suscitate dalla previsione di una dinamica
della relazione tra diritto comunitario e diritti nazionali del lavoro segnata
alle tensioni di un irriducibile antagonismo. In effetti, le cose si sono messe
in modo che le mentalità collettive nazionali possono produrre effetti sul
diritto comunitario in misura non inferiore all’incidenza del diritto
comunitario sui diritti domestici.
Casomai, scongiurata l’eventualità che ciascuno dei vigenti diritti del
lavoro, orgoglioso dei suoi intrecci con la storia del suo paese, sia animato
da un nazionalismo così ottuso da scegliersi il ruolo eroico e, al tempo
stesso, disperato della cittadella assediata, e che il diritto comunitario del
lavoro manifesti l’inclinazione a trasformarsi nel docile gregario di una
creatura selvaggia come l’economia di mercato, il problema appare
ribaltato. Il problema è quello di cadere dalla padella di una
centralizzazione sovra-nazionale sulle braci di un policentrismo permissivo
che, come qualcuno esemplifica non senza arguzia, potrebbe assumere la
forma e la sostanza di una legge nazionale preoccupata soltanto di stabilire
che “è proibito far lavorare i dipendenti ‘più che tanto’ nell’arco della
giornata”.
Per questo, l’alternativa al metodo degli atti vincolanti di armonizzazione
normativa consiste in un metodo di cooperazione intergovernativa che, pur
puntando su un coordinamento guidato dal soft law, prevede scambi
permanenti di dati e informazioni che consentano alle istituzioni
comunitarie di valutare l’opportunità di promuovere iniziative regolative
più cogenti e agli Stati membri di comparare le proprie iniziative e trarre
insegnamento dalle migliori esperienze altrui. Prevede insomma la messa a
punto e l’attivazione di organismi, dispositivi e procedure di controllo dei
progressi compiuti negli ambiti nazionali per il conseguimento degli
obiettivi comuni che, per certi aspetti, sono accostabili al reticolo dei “punti
di contatto nazionali” raccomandati di recente dall’Ocse come strumento di
effettività delle linee-guida valevoli per le multinazionali che operano nei
paesi aderenti alla medesima organizzazione.
Come dire che la più realistica rappresentazione del processo di riregolazione
in corso nell’Unione Europea è che un diritto comunitario del
lavoro dai contorni predefiniti non c’è; piuttosto, è in atto un processo di
armonizzazione dei diritti nazionali del lavoro e la sua costante evolutiva è
rappresentata più da una interazione aperta ad esiti multipli che da una
contrapposizione frontale destinata a concludersi con l’instaurazione di un
rapporto tra dominante e dominato.

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