Umberto Romagnoli
Se, come tutti concordano, per flessibilità delle condizioni di lavoro s'intende precarietà e insicurezza delle persone, la politica del diritto che essa richiede comporta in primo luogo che legislatori, sindacati e interpreti smettano di attribuire al lavoro dipendente a tempo pieno e indeterminato la valenza paradigmatica che aveva nella società industriale. In secondo luogo, poiché il persistente predominio quantitativo di questa forma di lavoro non ha impedito lo sgretolarsi della sua egemonia culturale, comporta che legislatori, sindacati e interpreti riescano a scrollarsi di dosso la vischiosità ideologica che li trattiene dallo spostare l'accento dal lavoro sulla cittadinanza. Come dire che devono smettere di credere che il diritto del lavoro - un diritto, cioè, oggi più che mai a misura di chiunque guarda al lavoro come all'unica o principale risorsa esistenziale - possa fare a meno dell'apporto del diritto pubblico che della cittadinanza è, per l'appunto, artefice e garante.
A questo fine, è necessario e sufficiente soffermarsi sul nesso di implicazione reciproca che ha inestricabilmente intrecciato tra l'Otto e il Novecento le vicende dei diritti nazionali del lavoro con le trasformazioni della società e dello Stato nei rispettivi paesi. Soltanto un'adeguata valorizzazione di questa complementarità permette di comprendere perché si possa affermare senza retorica che questo diritto costituisce "uno dei pochi indubbi esempi del progresso della cultura giuridica" del Novecento. Infatti, quello del lavoro è stato il diritto del Novecento non solo o non tanto perché il Novecento "era il secolo del lavoro" quanto piuttosto perché ha rinnovato la cassetta degli attrezzi occorrenti per governare le società industriali e lo ha fatto con una determinazione per cui, malgrado una robusta inclinazione nazional-popolare, ha finito per caratterizzarsi come il più eurocentrico dei diritti in un duplice senso.
Primo: nel senso che - qualunque sia la concezione del mondo: liberale, cattolica, socialista e, sì, anche fascista a cui abbiano di volta in volta aderito - i legislatori europei si sono distinti dai legislatori di altri continenti per una tensione riformatrice a ridurre le asimmetrie intrinseche al rapporto di lavoro.
Secondo: i legislatori europei del Novecento - anche perché esposti alla pressione sindacale - hanno cominciato presto a spingere lo sguardo al di là della soglia del contratto di lavoro ossia oltre l'orizzonte patrimoniale d'un contratto a prestazioni corrispettive. Per questo, il diritto del lavoro novecentesco ha contribuito a promuovere l'evoluzione del costituzionalismo euro-continentale che avrebbe permesso ai comuni mortali inchiodati per motivi di nascita e censo alla condizione di sudditi in uno Stato monoclasse di accedere alla condizione di cittadini di uno Stato pluriclasse.
Il confronto fra lo scenario sommariamente descritto e quello desumibile dal decreto legislativo 276/2003 sulla riforma del mercato del lavoro del governo Berlusconi non può non mettere in risalto la sontuosità del primo a fronte dell'indigenza del secondo. Finora, gli attacchi alla normativa entrata in vigore un anno fa si sono concentrati sull'indebolimento subito dal sistema delle garanzie del lavoro legate alla dimensione del rapporto e del suo svolgimento. Ma, anche se fossero esagerati, resterebbe in piedi la critica più severa. Essa attiene all'angusta settorialità dell'orizzonte in cui si colloca una riforma che, pur assecondando ossessivamente la flessibilità del lavoro, non sfiora nemmeno la questione che essa medesima contribuisce ad esasperare: la questione connessa alla garanzia delle prestazioni dello Stato sociale.
Manca quindi l'essenziale: manca la riduzione ad unità dei segmenti di vita lavorativa la cui discontinuità è intensificata da un pletorico repertorio di contratti di lavoro flessibile e precario in aggiunta a quelli preesistenti di cui comunque si aggrava flessibilità e precarietà. Manca cioè il riconoscimento - in sintonia coi risultati dell'analisi dell'équipe di giuristi comunitari coordinato da Alain Supiot - del diritto a proteggersi dai più elementari e frequenti rischi sociali indipendentemente da natura, modalità e durata del rapporto di lavoro.
Come dire che il legislatore ha assegnato allo Stato il ruolo del convitato di pietra nello stesso momento in cui prendeva decisioni che reclamano non meno Stato, ma più Stato.
Tuttavia, non ritengo che ciò sia sufficiente per sostenere che la storia del diritto del lavoro ha voltato pagina. Piuttosto, ne è stato stralciato un intero capitolo senza la consapevolezza che la questione sul tappeto riguarda la sopravvivenza della stessa democrazia o, direbbe Jeremy Rifkin, del "sogno europeo". Una consapevolezza che, viceversa, è vigorosamente presente nel disegno di legge - primi firmatari Giuliano Amato e Tiziano Treu - contenente una Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori che rappresenta una convinta e convincente riabilitazione del primo comma dell'art. 35 della Costituzione, ossia di un disposto normativo che, fino ad una trentina di anni fa, molti giuristi del lavoro negavano facesse parte del nocciolo duro del documento elaborato e approvato dall'Assemblea costituente.
La circospezione con cui gli interpreti si accostavano alla norma non era del tutto priva di giustificazioni. Alla fin dei conti, i ceti medi produttivi erano quel che sono tuttora: un eterogeneo agglomerato di operatori economici di cui parecchie centinaia di migliaia (forse, due o tre milioni) svolgono un'attività personale sulla base di assetti contrattuali diversi dal - e anzi, ancorché limitrofi, alternativi al - contratto di lavoro subordinato a tempo pieno e indeterminato che il codice civile e la legislazione susseguente collocavano al centro di un sistema di garanzie riccamente articolato.
Senonché, la Costituzione non fu scritta da pandettisti tardo-ottocenteschi. Preoccupati soltanto di obbligare la Repubblica a rimuovere le situazioni soggettive di inferiorità e svantaggio, di debolezza e diseguaglianza comunque e dovunque si manifestino - come si desume dall'art. 3. 2° comma - i suoi autori non potevano tenere in considerazione alcuna la differenziazione tipologica dei contratti in cui è dedotto un facere. Verosimilmente, guardavano al lavoro, "più che come fattispecie, come struttura riassuntiva dei fenomeni che riguardano l'integrazione del lavoro umano nei processi produttivi non solo nel quadro di un contratto tipico, ma nell'intera gamma delle relazioni giuridiche entro le quali si realizza". E' con queste parole d'insuperata eleganza e precisione che Massimo D'Antona identificava nel lavoro di cui al primo comma dell'art. 35 il genus "lavoro senza aggettivi", del quale il lavoro eterodiretto e inserito in strutture gerarchiche non è che una species.
Non a caso è questo il giurista che per primo ha proposto di ridisegnare il corpus delle regole del lavoro "in base ad una triplice polarità: le garanzie generali del lavoro senza aggettivi; le regole comuni alla famiglia dei contratti che realizzano l'integrazione onerosa del lavoro nell'attività economica del datore di lavoro; le garanzie specifiche del rapporto di lavoro connotato dalla subordinazione".
Là per là, lo spunto propositivo di un inedito "statuto dei lavori" non destò l'interesse che avrebbe rivestito successivamente alla rielaborazione che ne fece Marco Biagi incuneandolo nella prospettiva di una rimodulazione delle tutele nell'area del lavoro dipendente secondo un criterio ordinante che è ridistributivo nella stessa misura in cui è ablativo. Esso infatti evoca gli stessi automatismi compensativi che Massimo D'Antona aveva esplicitamente rifiutato. Perché non riusciva a capacitarsi che, per far crescere i capelli ai calvi, bisognasse rapare chi ne ha di più. Perché non considerava il mercato del lavoro a stregua di "un meccanismo per fare incontrare domanda e offerta", bensì - come ha scritto un Premio Nobel per l'economia - a stregua di "una istituzione sociale". Perché una cosa è rafforzare gli outsider rispetto agli insider, ben altra è rafforzare i datori di lavoro rispetto agli insider.
La divergenza tra le proposte de lege ferenda dei due giuristi del lavoro non era marginale. Era netta e profonda. Per questo, la Carta dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori precedentemente richiamata ha un valore didascalico esemplare. Essa è di per sé sufficiente a dimostrare che "partire da una protezione di base comune per procedere poi gradualmente, senza alcun regresso, verso tutele differenziate" si può, è storicamente possibile e, anzi, è una delle più ragionevoli utopie originate dal disincanto vissuto dal diritto del lavoro nello scorcio finale del suo secolo.
Ciò che divaricava le due proposte non può tuttavia cancellare ciò che le accomunava. Intanto, la tecnica modulare che entrambe applicavano: essa escludeva il proposito di omologare al trattamento degli abitanti dell'area del lavoro subordinato quello degli abitanti delle aree contermini. Ma ancora più significativa è la condivisione della premessa da cui muovevano. Comune ad entrambe era l'assunto di fondo.
Adesso che la figura-simbolo del produttore subalterno caro alla tradizione marxista non meno che a quella cattolica subisce un calo di centralità, l'unità del sistema normativo del lavoro si realizza in correlazione coi bisogni del cittadino che guarda al mercato del lavoro come àmbito di chance di vita e - poiché "la natura ha fatto gli uomini più eguali rispetto ai bisogni che non rispetto alla possibilità che essi hanno di compiere questo o quel lavoro utile alla società" (Bobbio) - essa non può essere garantita se non dal nucleo dei principi costituzionali che definiscono la nozione di cittadinanza sociale con la necessaria indeterminatezza. Necessaria perché la composizione quali- quantitativa del pacco-standard dei beni e servizi in cui la nozione è destinata a materializzarsi non può non essere la risultante di decisioni discrezionali del legislatore ordinario e difatti varierà nel tempo in rapporto al variare degli indicatori prescelti.
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